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 2019  dicembre 20 Venerdì calendario

Intervista a Lautaro Martinez

Si presenta in tuta. Dà la mano senza esagerare nella stretta, si scusa per il grosso anello che porta al dito: «Può far male». A Lautaro Martinez serve un attimo per trovare lo sguardo di chi ha di fronte, ma una volta stabilito il contatto non lo lascia più. «Sono pronto», sorride, nello spazio fra il pranzo e il riposo prima degli esercizi sotto la pioggia della Pinetina. Allo stesso modo, non spreca tempo in campo. L’argentino ha segnato dieci dei suoi tredici gol fra campionato e Champions nella prima mezz’ora. Reti che hanno portato l’Inter dov’è: a giocarsi il primo posto con la Juve dopo tanto tempo. «Eppure non ho giocato mica sempre in attacco: da bambino ero difensore».
Quando ha capito che fare gol era la sua vita?
«L’ha capito il mio allenatore a Bahia Blanca, la mia città. Disse che ero troppo veloce per fare il centrale e mi spostò avanti. Avevo undici anni».
Cosa le resta del passato in difesa?
«In un certo senso, non ho mai smesso di ragionare da difensore. Mi viene naturale aggredire ogni pallone, quando giocano gli avversari. È sempre stato il mio modo di stare in campo».
Com’è nato il soprannome Toro?
«Al Racing, a 17 anni. Ero forte e
bruto. Mi scontravo con tutto e tutti.
Lo inventò Santiago Reyes, mio compagno di squadra e di pensione».
Santiago gioca ancora?
«No, come molti ragazzi a un certo punto ha smesso».
Lei invece ce l’ha fatta.
«Merito dei miei genitori. Mio padre ha giocato a calcio da giovane e ha trasmesso la sua passione a me e ai miei fratelli. Soldi non ce n’erano, ma un piatto in tavola e un pallone non ci sono mai mancati. Per un periodo dormivamo tutti in una stanza, noi tre figli, mamma e papà. Ma il fútbol era sacro, agli allenamenti andavamo in bicicletta, in bus, spesso a piedi».
Oggi dove vivono i suoi genitori?
«Ho comprato loro una bella casa in Argentina, appena me lo sono potuto permettere. Sto aiutando anche i miei fratelli, quello che guadagno lo condivido con loro. Hanno fatto sacrifici per farmi diventare quello che sono. Hanno sofferto quando li ho lasciati per giocare».
Chi è il suo modello nella vita?
«Mio padre. Mi ha insegnato che la vita può essere difficile, ma va vissuta. Faceva l’infermiere in una casa di riposo. Usciva la mattina alle sei e tornava alle dieci di sera, mentre mamma stava a casa con noi.
Era sempre tranquillo, come lo sono io. In campo invece devo imparare a controllarmi di più. Ce la metto tutta, ma ogni tanto mi accorgo di essere ancora giovane».
Chi è il suo idolo?
«Radamel Falcao. Lo ammiravo da bambino quand’era al River Plate.
L’ho conosciuto in Copa America, contro la sua Colombia. Gli ho chiesto di scambiarci la maglia. Mi imbarazzava, non è nel mio carattere, da allora non l’ho più fatto. Ma quel giorno ho realizzato un sogno. Lui mi ha consigliato di godermi il momento, di guardare sempre avanti».
Da ragazzino era tifoso del River?
«È complicato. La famiglia di mio padre è del Boca, mamma tifa River.
Passando al Racing, ho risolto il problema. Sarò sempre grato al club che mi ha fatto esordire in prima squadra, come sarò grato all’Inter, che mi sta facendo crescere».
La sua infanzia ricorda quella di Lukaku, suo compagno d’attacco.
«Aver vissuto esperienze dure ti rafforza. Ti aiuta a tenere i piedi per terra e a lavorare con umiltà. In questo siamo simili. Romelu ha solo 26 anni ma ha una grande esperienza di vita e di calcio. Ha segnato molti gol in grandi squadre e conserva un cuore nobile. In campo, il segreto è aiutarsi».
Chi fra voi vince alla Playstation?
«Non ci gioco. Già da bambino mi sembrava una perdita di tempo. Quando abbiamo potuto, l’abbiamo comprata, ma l’unico appassionato è mio fratello minore. Ama i giochi di basket, il suo sport. Anche a me piace la pallacanestro, ma l’atleta è lui».
Lei è felice quando la mattina si guarda allo specchio?
«Più che allo specchio sono felice per strada, in Argentina e a Milano, città che amo. Essere fermati dai tifosi è una sensazione che devi provare di persona. Ti vogliono bene senza conoscerti, solo perché hai buttato una palla in porta. Ti fa capire quanto il calcio sia importante per la gente. Soprattutto per i bambini, ed è quello che più mi emoziona».
Autografi o selfie?
«La foto è un ricordo migliore. Ho 22 anni, sono abituato così».
Che rapporto ha con Messi?
«Per noi argentini Leo è importante come lo è stato Maradona. È una cosa che va oltre il calcio. È il migliore al mondo, giocare con lui in nazionale è un privilegio. È generoso, mi indica i movimenti, mi insegna a trovare spazi che apparentemente non esistono».
Il futuro lo immagina all’Inter?
«Qui sono felice, è casa mia. Conte mi aiuta a migliorare. Mi ha concesso i minuti di cui un giocatore ha bisogno. Si fida di me e io mi sento sicuro».
Conte nelle prime conferenze stampa la chiamava “Martinez”, poi “Lautaro”, ora “Lauti”, precisando che “è una questione affettiva”.
«Abbiamo imparato a conoscerci in fretta. Mi sembra incredibile che siano passati solo cinque mesi. La cosa che più apprezzo in lui è la passione per il calcio. È profonda, contagiosa».
Che rapporto ha con Zanetti?
«Già in Argentina mi chiamava, ci scrivevamo. Quando ci siamo visti alla Pinetina è stato come ritrovarsi dopo tanto tempo».
Chi l’ha convinta a scegliere l’Inter?
«È stata una decisione mia. Avevo tante offerte, le ho rifiutate. Quando è arrivata l’Inter ho capito che era il momento del salto in Europa. Ho scelto il club per la sua storia, per il livello dei giocatori, per l’affetto che ho sentito da subito».
Qual è il vostro punto di forza?
«La mentalità. L’hanno dimostrata i compagni chiamati a sostituire gli infortunati. Non avevano giocato molto, ma erano pronti. È il segno che il gruppo c’è».
In cosa dovete migliorare?
«La concentrazione e la furbizia nel chiudere le partite. La strada è giusta ma dobbiamo maturare».
Gli allenamenti di Conte sono duri come dicono?
«Durissimi! Allena con intensità, dà importanza alla preparazione fisica. È indispensabile quando giochi cinque partite in due settimane».
Dove può arrivare l’Inter?
«So che non sembra possibile, ma davvero pensiamo partita per partita. Stiamo facendo un grande lavoro, stiamo crescendo. Non ci serve guardare più avanti».
La Juve è più forte dell’Inter?
«Sono molto forti. Ma abbiamo imparato a non fare paragoni. Il riferimento siamo sempre noi stessi».
Dopo la gara al Camp Nou con il Barcellona, il suo gioco è esploso.
Cos’è successo quella sera nella sua testa?
«Il merito è di una frase che mi ha detto Conte. Gliene sarò sempre grato. Parole preziose, che non dimentico e che voglio custodire. Ci sono cose che sono solo mie».
La sua ragazza ha centinaia di migliaia di follower. Lei è geloso?
«Agustina mi rispetta. È con me nei momenti buoni e in quelli bui, mi fa sentire forte. Non ho dubbi su di lei né su di noi. Le foto le guardi pure chi vuole».
Progettate di avere figli?
«Li vogliamo tantissimo, ne abbiamo parlato. Ma è troppo presto. Abbiamo un cane e per ora va bene così. Siamo giovani, dobbiamo crescere insieme. La famiglia è una cosa seria».
I suoi figli probabilmente cresceranno lontani dall’Argentina.
«Farli nascere a casa mi piacerebbe, ma vivo in Italia, la mia vita è qui. Di sicuro insegnerò loro la mia cultura. Voglio che siano argentini anche a migliaia di chilometri di distanza».
Ad accoglierla all’Inter fu Mauro Icardi. Vi sentite anche oggi che lui gioca a Parigi?
«Siamo amici, ci sentiamo. Quando sono arrivato a Milano non mi ha dato una mano, me ne ha date due perché io mi ambientassi. Non conoscevo nemmeno la lingua».
Icardi è contento dei suoi successi all’Inter?
«Certo. Anche quando eravamo compagni si dava da fare perché io giocassi al meglio, quando ne avevo l’occasione. È il suo modo di essere».
Suo padre Mario spera che lei possa essere allenato da Guardiola. Qual è il suo sogno come calciatore?
«Giocare i Mondiali. Nel 2018 ci sono arrivato vicino».
Le piacerebbe aiutare Messi a vincere la Coppa del mondo?
«Sarebbe bellissimo. Ci è arrivato molto vicino. Ha sfiorato la Copa America, giocando tre finali. Messi campione del mondo, insieme ai compagni, sarebbe una cosa grandissima per tutta l’Argentina».
La vogliono tanti grandi club europei, che effetto fa?
«Mi conferma che sto lavorando nel modo giusto. Significa che sto crescendo e che sto facendo il bene dell’Inter, e per me è la cosa più importante».