Corriere della Sera, 20 dicembre 2019
Intervista a Enrico Alleva
Professore, ma davvero lei conobbe Rita Levi Montalcini dopo che la sua aquila planò sul balcone romano della scienziata?
«Non era un’aquila, ma un nibbio, un rapace innocuo e persino elegante».
Sì, ma la signora si spaventò.
«E pensi che io avevo solo tredici anni quando bussai alla sua porta e le dissi: “Scusi professoressa, credo che il mio rapace si sia rifugiato a casa sua”. Da quel momento siamo diventati inseparabili».
Curiosamente, oggi nella casa romana di Enrico Alleva, uno dei più importanti etologi e studiosi del comportamento, non c’è traccia di animali, se si fa eccezione per il teschio di un lupo, l’abito nerastro di un pennuto, o un Punteruolo rosso della palma inumato in un barattolo. C’è stato però un tempo in cui Alleva (già alto dirigente dell’Istituto Superiore di Sanità, accademico dei Lincei, presidente della Società Italiana di Etologia, eccetera eccetera) ha vissuto in una casa con i pipistrelli in bagno e dei grassi serpenti in frigorifero.
Professore, perché?
«Vede, il concetto di protezione degli animali è abbastanza recente. Io ho sessantasei anni e quando ero giovane questo rispetto nei loro confronti non era ancora istituzionalizzato come oggi. Così qui a Roma, assieme a Fulco Pratesi, Eva Hülsmann e altri, avevamo formato una comunità che raccoglieva e ospitava serpenti feriti, cani zoppi, rapaci. Non era strambo: era l’espressione di una generazione, quella che ha fatto o sfiorato il ’68, profondamente convinta che tutto fosse possibile».
Liceo «Tasso», lunga militanza nei Boy Scout. Che ’68 è stato il suo?
«Andavo alle marce con un gufo sulla spalla. Oppure correggevo i congiuntivi sui volantini. Eravamo però ragazzi molto impegnati, poco inclini a fumare sostanze che ci distraessero dai libri. Siamo stati una generazione capace di fare branco, di solidarizzare e diventare coesi. Cosa che i ragazzi oggi non sempre sanno fare. Ma il valore della coesione me lo hanno insegnato gli animali. Sa qual è uno degli animali più solidali con gli altri della sua specie?».
No, qual è?
«L’avvoltoio. Li ho studiati a lungo: si muovono in file che rispettano un ordine molto particolare, come se si osservassero costantemente a vicenda. E quando uno di loro plana per avventarsi su una carogna, gli altri rallentano disorientati, quasi andassero a cercarlo».
Le «sardine» fanno branco, eccome.
«Nella protesta, certo. Ma io parlo di una coesione che ancora oggi lega me e molti protagonisti di quella stagione con il filo della possibilità, della visione, del sogno. Siamo cambiati. Siamo sempre più soli. Konrad Lorenz notò che passiamo sempre meno tempo a corteggiarci. Osservazione illuminante: il corteggiamento non è solo il preludio alla riproduzione, ma aziona degli stimoli importanti per le specie stagionali. Una gravidanza, il fare un uovo: sono rivoluzioni che chiedono tempo, sicurezza, assenza di forti ansie».
È per questo che si fanno meno figli?
«Mio padre, che aveva fatto la guerra, diceva che non in tutti i periodi della storia le donne sono fertili allo stesso modo. Non è solo una questione di scelte, ma anche di predisposizione, di nutrizione, di sicurezza economica. C’è una sorta di pressione esterna sui trentenni oggi, fecondità compresa. Li capisco: anche io negli anni sessantottini sentivo che “i grandi” ci chiedevano molto. Volevano ricette per risolvere le crisi, ci volevano in questo o quell’altro modo».
Che cosa le hanno insegnato gli animali dopo tanti anni trascorsi a studiarli?
«Che poche cose sono più forti e contagiose della paura, che un essere in preda alla paura può fare cose spaventose. Ma anche che stare in branco aiuta. Una volta abbiamo messo a confronto il panico che prende i broker finanziari quando cominciano a vendere tutti assieme e gli stormi attaccati dal falco pellegrino. La molla che muove i due istinti è la stessa».
L’animale più imprevedibile?
«Le racconto un aneddoto. Mi trovavo ai piedi del Kilimangiaro, si camminava con cautela, quando sentii un fruscio. Convinto di poter indovinare di quale animale si trattasse, mi fermai e mi convinsi che era una volpe. No, si trattava di un enorme elefante. Che paura».
Lei ha attraversato a piedi il Borneo e la Terra del Fuoco, ha camminato per deserti, ha vissuto nella foresta. Che cosa le hanno insegnato quelle società?
«A rispettare le sensibilità, le tradizioni e il modo di pensare di tutti. Una volta mi trovavo nel Borneo e non sapevo che fischiare fosse un atto illegale perché, nelle loro convinzioni, quel suono attira gli spiriti maligni. Io fischiai e venni processato. Meno male che con me c’era un missionario che mi aiutò. Mai andare in certe zone senza un missionario accanto».
L’esperienza nei Boy Scout le è stata utile?
«Diciamo che da quell’esperienza sono venute fuori personalità diverse. Il vicecapo della mia squadriglia si chiamava Andrea Ghira (condannato per il massacro del Circeo del 1975, ndr). Non so come si possa cambiare così radicalmente. Forse conta l’influenza della famiglia, forse il caso. Io fin fa bambino ho cominciato a studiare gli animali, il cervello, il comportamento e sul tetto della casa dei miei genitori avevo costruito una voliera dove tenevo i miei rapaci. Sono cresciuto con una forte curiosità intellettuale».
Crede in Dio?
«Sono uno che ha ricominciato a leggere attentamente il Vangelo. Mi affascinano alcune parabole come quella del Figliol prodigo: un figlio che era morto e che per un padre torna alla vita è una cosa grandissima».
Studi alla Normale di Pisa, poi tanto lavoro all’estero, quindi l’incarico all’Iss. Com’è fare ricerca scientifica in un Paese come il nostro, dove l’influenza di Gentile e l’impronta umanistica sono molto forti?
«Faccio l’esempio degli Stati Uniti: lì l’esperienza in laboratorio è continua e costante, non focalizzata solo alla tesi. Ma sapesse quanto sono bravi i nostri allievi quando poi vanno all’estero, che capacità di visione, che abilità nell’immaginare le possibili soluzioni».
Però la cultura scientifica perde carisma. Penso ai terrapiattisti e alle loro convinzioni.
«È vero, ma chiediamoci il perché. Lo scienziato non deve chiudersi nella sua torre d’avorio, innamorato delle sue certezze e slegato dal presente. La scienza deve essere trasparente, dotata di un giusto impianto divulgativo. Se oggi ci sono persone che sostengono senza remore che la Terra è piatta o che i vaccini sono dannosi è anche per l’atteggiamento chiuso e altezzoso di molti scienziati».
Dunque bisogna dialogare con chi dice che la Terra è piatta?
«Non dico questo, dico che sbagliano quelli che nella scienza vedono solo la risposta infallibile alle domande. La scienza serve anche a imparare un metodo per capire meglio le cose, a comprendere la vita. Non siamo sacerdoti di una religione: persino Galileo faceva le lezioni in piazza, parlava a tutti. Tutti gli scienziati dovrebbero ricordarsi che l’autorevolezza è qualcosa che si conquista di volta in volta».
Oggi l’abbiamo dimenticato, ma la stessa psicoanalisi ha fatto fatica ad acquisire un po’ di credibilità nella comunità scientifica.
«Sì, ricordo Cesare Musatti, che una volta venne a tenere una lezione alla Normale. Io ero una sorta di tutor dei più giovani e feci un discorso molto scettico nei suoi confronti, perché ritenevo le sue convinzioni difficilmente dimostrabili. Poi però siamo diventati amici».
Sta montando il dibattito sull’omeopatia.
«Guardi, tante cose possono far muovere i nostri neuroni e cambiare il modo in cui ci sentiamo, Levi Montalcini per esempio verso la fine della sua vita si era innamorata della psicanalisi. C’è chi si affida alla pet therapy, e per inciso credo che sia molto importante per un bambino crescere a contatto con un essere dotato di biografia, storia e carattere, anche se non umano. Però sia chiaro: l’omeopatia non può diventare uno spreco di risorse».
A Rita Levi Montalcini lei è stato legato da una lunga amicizia e da un solido rapporto professionale. Però il mondo scientifico è ancora poco ospitale per le donne, no?
«Con orgoglio, alla Treccani, mi sono impegnato per aggiornare il dizionario biografico e inserire più voci di donne scienziate. L’allora presidente Giuliano Amato mi ha appoggiato, convinto come me che troppo spesso nella storia le donne abbiano avuto ottime idee, condotto ottimi esperimenti ma che poi, alla fine, non abbiano firmato gli articoli, cosa fondamentale per essere ricordate e citate».
Qual è la parola che tanti anni di studi sugli animali le suggeriscono di non usare mai?
«La parola estinto».