La Stampa, 20 dicembre 2019
Torino perde 500 abitanti al mese, mentre Milano ne guadagna 1000
Tra dieci giorni la notizia del primo nato del 2020 regalerà un sorriso, un segno di ottimismo in una città che ne ha bisogno. Le scuole dell’infanzia che si svuotano ci hanno già descritto una Torino che si restringe, dove non si arresta la tendenza riassunta nel grafico elaborato dalla Fondazione Agnelli nell’ambito dello studio «Demografia e migrazioni a Torino: uno sguardo al lungo periodo», commissionato da Amma e Compagnia di San Paolo. L’andamento, negli ultimi cinque anni, dichiara che Torino perde 500 residenti al mese, mentre Milano – costosa, città poco prolifica come la nostra, con un analogo indice di mortalità, ma evidentemente attrattiva – ne acquisisce 1000. «A Milano – spiega Stefano Molina, dirigente di ricerca della Fondazione Agnelli, che ha curato lo studio – i saldi migratori compensano quelli naturali, mentre a Torino non arrivano a colmare il divario cronico tra nascite e decessi. Il calo diventa problema per tante ragioni, la più immediata è il ridursi delle risorse che la Città riceve dai suoi abitanti e che servono per mantenere i servizi». La popolazione cambia, ma in modo difficile da percepire in tempo reale. «L’evoluzione demografica – suggerisce Molina – è la lancetta piccola dell’orologio: pare immobile, ma è la più importante. Nella demografia è così. La lentezza produce i grandi cambiamenti e i decisori politici devono tenerne conto. Come devono considerare il carattere di una città per capire dove può andare. Oggi Torino ha 875.000 abitanti, bisogna capire se è destinata a restare una grande città italiana e una media città europea oppure, scollegata e poco attrattiva, diventare una media città italiana insignificante sulla scena europea. Nel ’900 il suo boom legato all’industria è stato un unicum in Europa. Senza immigrazione sarebbe rimasta una città di 300.000 abitanti, come Catania o Verona».
Considerare il carattere: Molina si rifà alla definizione di «torinese» data da Luigi Firpo nel libro «Torino, ritratto di una città» (1971), è cioè «egualitario, conscio della dignità del servizio civile... dedito al lavoro serio e ben fatto...». Su queste basi Torino integra, plasma a sua immagine. «Tra il 1970 e il 1988 – prosegue il ricercatore – l’indice di fecondità delle donne arrivate dal Sud si è allineato a quello delle native. E la storia si ripete con le donne straniere». Tra 2004 e 2018 il numero di figli delle donne straniere è sceso da 2,69 a 1,84, Quello delle native è di 1,17. «In media siamo a 1,27 figli mentre il ricambio della popolazione è assicurato da 2,1 figli per coppia. Chi viene a vivere a qui si ritrova in breve a sacrificare la famiglia allargata. Così a Torino si può applicare il mito di Sisifo». Sisifo spinge il masso verso la cima, poi il masso rotola di nuovo a valle e lui deve spingerlo su un’altra volta. Dunque, ci vuol poco a diventare «torinesi». E a mettere la città nella condizione di aver bisogno di nuovi apporti esterni.
«Oggi un terzo dei bambini e dei ragazzi fino a 18 anni è costituito da “nativi globali"», osserva Molina, coniando una definizione che si affianca a «nativi digitali». Sono i giovanissimi stranieri nati all’estero, stranieri nati in Italia, italiani nati all’estero, figli di coppie miste. «Questi ragazzi sono percepiti uguali dai compagni di classe e non faranno i lavori umili e spesso sfruttati dei loro genitori. Saranno insegnanti di matematica, impiegati, poliziotti. Sceglieranno lavori di livello medio. E ci sarà nuovamente bisogno di immigrati per i lavori pesanti e poco qualificati. C’è la positiva tendenza ad avere una popolazione più istruita, ma i 400.000 senza diploma che escono dal mondo del lavoro ogni anno sono molto più numerosi delle persone che vi entrano con titolo di studio altrettanto basso». E il ciclo si ripete. «Un fattore sicuramente attrattivo di nuova immigrazione è l’invecchiamento della popolazione, con l’assistenza alla “quarta età” ancora delegata alle famiglie, con un sistema di assistenza difficoltoso, senza creazione di un’economia di scala con case di riposo, con le speranze di vita – sottolinea Stefano Molina – che aumentano più rapidamente di quelle di arrivarci in buona salute». Oggi in Italia si stimano due milioni di badanti, nel 2030 potrebbero servirne due e mezzo e Torino ne potrebbe prenotare fin d’ora una bella quota. «Nel frattempo – suggerisce Molina – dovrebbe fare di tutto per restare coerente con la sua storia, non cedere alla tentazione di “piccolo è bello”, curare i suoi collegamenti, diventare attrattiva per le famiglie».