La Stampa, 19 dicembre 2019
Il pranzo di Natale tra lasagne cacate e cappelletti in brodo di cappone («Di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini»)
Rassicuranti, semplici e calorici, i piatti della tradizione hanno a volte anche nomi bizzarri, come le «lasagne cacate» siciliane. E sono antichi, come le «cartellate» pugliesi (dolci di sfoglia arricciata fritti nell’olio, con mosto cotto o miele), di cui si trova traccia già del VI secolo a. C. in una pittura rupestre rinvenuta vicino a Bari. Si mangiano prima della tombola, indossando pullover con le renne, riabbracciando parenti lontani, complimentandosi con la nonna, in genere unica custode di ricette tramandate nel tempo.
Impossibile, però, rintracciare tutte le pietanze, i dolci, i primi e i secondi del più autentico Natale, la lista non sarebbe mai esauriente: sono infinite le versioni che a volte differiscono per un solo ingrediente spostandosi di pochi chilometri. Bisognerebbe bussare alle porte degli italiani, aprire i coperchi, annusare, domandare, un po’ come fece, in modo straordinario, Mario Soldati nel suo Il pranzo di Natale, in onda nel 1958. «Sapore patriarcale, genuino, leggerissimo, un soffio»: così definì, ad esempio, i «crustoli» abruzzesi preparati dalla baronessa Aurelia Ricci Michetti «mestolo d’oro della cucina italiana». Da non confondere con gli omonimi dolci calabresi, questi «crustoli» sono frittelle di patate e pane tipici della cena della Vigilia.
Le credenze
Il Sud è generoso nell’offerta, abbonda negli ingredienti e anche nella fantasia: le «lasagne cacate», all’uovo con ragù di carne e ricotta, diffuse vicino a Modica, devono il nome – secondo una delle numerose credenze – al fatto che in origine erano riservate alla nobiltà, «cacato» sta per snob in dialetto ancora oggi: «Lasagni cacati e vinu a cannata. Bon sangu fannu pi tutta l’annata» dice il detto.
Porta fortuna anche mangiare il capitone fritto, i superstiziosi napoletani pensano di scacciare così la negatività: la femmina dell’anguilla, infatti, ricorda il serpente, simbolo del Male nella Cristianità. E per completare «l’esorcismo» bisogna giocarsi il numero: la smorfia suggerisce il 32.
In un ipotetico menù della tradizione non possono mancare poi i «calcionetti di ceci» di San Salvo (Chieti), descritti dal linguista Ernesto Giammarco nel 1968 come «cavicioni, specie di ravioli fritti ripieni di marmellata, uova, castagne lesse, ceci», o la «zuppetta di San Severo» (Foggia) – un tempo il pancotto dei ricchi – a base di tacchino, caciocavallo, mozzarella, pane abbrustolito, brodo sempre di tacchino, il tutto assemblato e passato in forno. L’idea del piatto unico torna anche nelle impanate siciliane, focacce ripiene di verdure e salsiccia. Ancora zuppa, ma questa volta assieme al cotechino, pure in Friuli Venezia Giulia: è la «broada e muset» (brovada e musetto). E poi c’è il pesce stocco di Cittanova, in Calabria, noto già agli inizi del VIII secolo, e spugnato con l’acqua dell’Aspromonte e per dessert, il pandolce genovese.
Si rischia la «guerra civile» invece addentrandosi nel favoloso mondo dei cappelletti, che in Emilia Romagna si «conciano» in tanti modi. Pellegrino Artusi, il più noto gastronomo italiano, per il suo pranzo di Natale scelse la versione in brodo diffusa tra Ravenna, Rimini e Forlì: ripieni di «ricotta oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo – scriveva ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene -. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini».