la Repubblica, 19 dicembre 2019
Sulla complicata amicizia tra Fellini e Pasolini
Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini si incontrarono per la prima volta a metà degli anni ’50, dopo il successo di Ragazzi di vita. Pasolini, «gattino peruviano accanto al gattone siamese», raccontò che Fellini lo condusse subito in una campagna «perduta in un miele di suprema dolcezza», guidando la «macchina magicamente, come tirandola e tenendola sospesa con un filo». Dal canto suo Fellini narrò più volte di essere rimasto affascinato dalla dimensione picaresca e selvaggia delle avventure per le strade di Roma dei giovani descritti da Pasolini, «a tal punto che inventai la storia di una banda di ragazzini senza casa che occupavano un intero casamento nella periferia di Roma, e la strana comunicazione, virtualmente telepatica, che esisteva fra loro». Questo progetto non venne mai realizzato ma se ne ritrova un’eco in una frase sussurrata da Benigni a uno dei fratelli Micheluzzi nell’ultimo film felliniano, La voce della luna. Fellini fu colpito dalla fisionomia e dalla fisicità di Pasolini, dal suo «corpo teso e polveroso» da «gallo da combattimento» e dalla sua «curiosa andatura elastica, come se le sue corte gambe avessero delle molle», dal volto «da proletario», «da pugile di borgata» che aveva «qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta». In molte interviste Fellini continuerà a sottolineare la capacità di distacco critico dalla propria opera del poeta-regista: «Pasolini sa tutto quel che vuol fare: gira il film, e immediatamente dopo lo decodifica. A me questa operazione non riesce: probabilmente perché col cinema ho un rapporto di clandestinità psicologica».
Nacque un’immediata sintonia: forse dettata dalle origini provinciali, forse dalla fascinazione di entrambi, in modi diversi, per alcuni connotati magico-religiosi della cultura popolare italiana – consapevole in Pasolini, più istintiva nel regista romagnolo. Non soltanto Fellini lo coinvolse nel “cantiere” della sceneggiatura di Le notti di Cabiria per la sua conoscenza viva e diretta del linguaggio delle borgate e dell’ambiente della prostituzione, ma volle farsi guidare in lunghi itinerari notturni in automobile. Insieme cercarono, senza mai trovarla, la “Bomba”, un’ex bellissima prostituta decaduta a vivere nelle grotte del sottosuolo che Fellini avrebbe messo in scena in una sequenza inizialmente tagliata e poi reintegrata delle Notti di Cabiria. Da parte sua, Pasolini citò la Cadillac di Fellini e il suo parlare continuo “stanco e instancabile” mentre raggiungevano il mare di Torvajanica, nella poesia La religione del mio tempo (1957-’59) e descrisse quei viaggi notturni nelle bellissime pagine della Nota su “Le notti”, evocando, non senza fascinazione, la complessità e le contraddizioni di «un uomo tenerissimo, intelligente, furbo e spaventato» ma anche raffigurandolo come “una lumaca-labirinto” che «digerisce e assimila tutto nei suoi visceri, orrendi e radiosi: digerisce anche voi, se non state attenti». Infatti Fellini finì per deludere Pasolini: dopo altre due collaborazioni (per il film non realizzato Viaggio con Anita nel 1957-’58 e La dolce vita), accettò inizialmente di produrre il suo esordio come regista, Accattone, con la società che aveva costituito con Angelo Rizzoli, la Federiz. Ma dopo avere visto dei provini deludenti, decise di ritirarsi. Pasolini raccontò dettagliatamente lo spiacevole episodio e la propria amarezza in tre articoli diaristici per Il Giorno dove definì il suo produttore mancato come un “elegante vescovone” e “grande Mistificatore”. Forse anche per farsi perdonare l’incidente, Fellini intervenne pubblicamente per difendere Accattone, accanto a Giulio Carlo Argan, Giancarlo Vigorelli e altri in un dibattito organizzato dal produttore Alfredo Bini con la rivista Europa letteraria quando il film venne bloccato dalla censura, nell’ottobre del 1961. Forse anche i sensi di colpa trasfigurati, avevano originato quel sogno, descritto nel febbraio ’61 per Il libro dei sogni, dove Fellini immaginava di dividere il proprio letto di ragazzo a Rimini con Pasolini e di guardarlo «con tenerissimo affetto».
Nel film La ricotta (1963), episodio di RoGoPaG, Pasolini ritrasse un disincantato e mondano regista marxista (interpretato da Orson Welles), che realizza un film sulla passione di Cristo in chiave manierista, una sorta di esorcismo di quello che egli non sarebbe mai voluto diventare. Quando gli viene chiesto di definire «il nostro grande regista, Federico Fellini», il personaggio risponde: «Egli danza». Ma questa frase “ineffabile”, Pasolini l’aveva scritta per definire se stesso, come risulta da una prima stesura del dialogo, dove ha poi sostituito il nome di Fellini al proprio. Forse ha finito per ritenere che ad incarnare la disinvoltura nel muoversi fra sincerità e dissimulazione fosse appunto il regista riminese.
Fellini evitò di replicare pubblicamente ma nel marzo 1963 non fece mancare la propria solidarietà a Pasolini, quando La ricotta venne condannata per vilipendio della religione. L’“incidente” di Accattone sembrava superato ma i loro rapporti tornarono a raffreddarsi nella seconda metà degli anni ’60, quando Pasolini fece un breve intervento nel documentario di Maurizio Ponzi Fellini in città (1967) dicendo: «Fellini che di per sé è un piccolo caso della piccola Italia, diviene un grande fatto d’arte per la dilatazione che lo rende abnorme».
In quello stesso periodo, con un procedimento per lui del tutto inedito e che non ripeterà per nessun altro, Fellini citò il nome di Pasolini con sottile sarcasmo nei film Toby Dammit (l’episodio di Tre passi nel delirio, 1968) e nel televisivo Block-notes di un regista (1969), e in un’intervista rilasciata alla Rai accanto a Luchino Visconti per la presentazione alla Mostra di Venezia del Fellini Satyricon, fu suo “complice” «nel dir male, senza nominarlo, dell’assente (cioè di me: che ero assente per protestare contro due processi dovuti alla mia presenza a Venezia l’anno precedente. Non avrei mai preteso la solidarietà di Fellini, figlio obbediente» scrisse, risentito, lo stesso Pasolini. “Figlio obbediente” perché Fellini non si era schierato con i contestatori della Mostra, a differenza di Pasolini.
Il gelo fra i due cineasti continuò ad affiorare in allusioni velenose a mezzo stampa, finché all’inizio degli anni Settanta il dialogo fra loro sembrò risollevarsi da questi piccoli veleni: Pasolini, oltre a recensire la sceneggiatura di Amarcord e il film stesso, fu fra i pochi a esaltare Roma (1972), definendolo “il suo capolavoro”. Nel 1975 i due cineasti si trovarono a lavorare per lo stesso produttore, Alberto Grimaldi, e nell’estate, intorno a Ferragosto, subirono entrambi il traumatico episodio del furto di numerose “pizze” di Salò o le 120 giornate di Sodoma e di Casanova, dagli stabilimenti della Technicolor. Il furto non ebbe conseguenze rilevanti perché per Salò fu possibile rimediare con “doppi” e “riserve” (ossia con altri negativi delle stesse scene) mentre per Casanova le “pizze” rubate furono ritrovate il 2 maggio 1976, ben prima del montaggio definitivo. Nel frattempo Pasolini era stato brutalmente assassinato, la notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Un evento che impressionò profondamente Fellini, tanto che in seguito ne parlò spesso nelle interviste, ricordando che «Una volta mi disse: “La verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta». Oppure confessando «il rimpianto di non averlo visto più spesso, di non aver approfittato della sua generosità, della sua cultura».
Negli anni ’80, quando Fellini evidenziò l’imbarbarimento provocato dalla televisione, sembrò quasi riecheggiare alcuni temi degli Scritti corsari e delle Lettere luterane di Pasolini.
Ginger e Fred (1986), il film dove raffigurò la degradazione di un’Italia intossicata dalle tv private del cavalier Fulvio Lombardoni, racconta anche la storia del percorso dantesco di due vecchi ex ballerini nei gironi della televisione commerciale dove le nuove generazioni, indifferenti e ciniche, non esitano a mortificare la dignità dei due vecchi Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, la cui esibizione rischia di essere uno spettacolo basato sulla loro patetica umiliazione. Dieci anni prima, Pasolini aveva scritto che il trionfo del consumismo televisivo aveva segnato la fine della pietà e il trionfo di un’edoné indifferenziata.