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 2019  dicembre 19 Giovedì calendario

Intervista a Domenico Arcuri, l’uomo alla guida di Invitalia

Domenico Arcuri, 55 enne calabrese cresciuto nell’Iri e in Deloitte, è l’uomo più ricercato d’Italia: il governo ha scelto Invitalia, l’agenzia pubblica per gli investimenti che lui guida dal 2007, per intervenire nei casi più difficili. Dall’ex Ilva alla Popolare di Bari.
Arcuri, come si spiega che Invitalia sia così ricercata?
«Negli anni abbiamo guadagnato una qualche considerazione delle istituzioni e dei mercati, siamo diventati interlocutori sufficientemente seri e affidabili. In giro non ce ne sono molti».
Nel settore pubblico, vuole dire?
«Sì. Noi siamo posseduti al 100% dal governo, quindi potenzialmente adatti a svolgere una serie di attività e missioni indispensabili di fronte ai problemi di oggi: un Paese che non cresce, sempre più diseguale, dove il rapporto fra privato e pubblico diventa necessario, anche per ricominciare a connettere l’industria con la finanza. A maggior ragione se a Sud i costi e i tempi dell’accesso al credito determinano uno svantaggio per le imprese».
C’è anche Cassa depositi e prestiti. Ma le fondazioni socie del Tesoro non amano le operazioni spericolate e l’intera holding rischia di essere riclassificata come parte dello Stato, facendone esplodere il debito.
«Le fondazioni hanno posizioni legittime e la questione del debito credo sia vera. Inoltre, forse, c’è un diverso rapporto con il tempo. Noi a Invitalia possiamo essere pazienti. Se un’operazione ha senso, non abbiamo l’assillo di dover far fruttare un investimento in un periodo breve come un privato. Ma dobbiamo stare molto attenti a capire se e quando c’è una ricaduta positiva per il Paese. Era il discrimine fra l’Iri e la Gepi».
Che significa?
«Se qualcuno pensa che in Italia nel 2020 si possa rifare la Gepi del 1971, un ricettacolo di fallimenti mascherati, è fuori dal mondo. Semmai, serve un soggetto pubblico con un portafoglio di strumenti per consolidare la ripresa. Un soggetto facilmente riferibile allo Stato, ma capace di negoziare. Invitalia non può fare tutto».
Ex Ilva e Popolare di Bari: quale è più difficile?
«Ilva, senza dubbio. Ora c’è molta attenzione sulla trattativa con i Mittal sul numero degli esuberi, ma vanno visti anche altri elementi. È in vigore un Contratto istituzionale di sviluppo su Taranto – risorse nazionali e europee – che vale un miliardo. Dobbiamo vedere se e come fare investimenti incrementali, per esempio cominciando a restaurare la città vecchia. E come finalmente bonificare il territorio fuori dallo stabilimento. Progetti che possono, tra l’altro, assorbire personale in esubero dall’ex Ilva».
Prenderete una quota accanto a Arcelor-Mittal?
«Non so chi sia il soggetto pubblico che possa partecipare al capitale dell’ex Ilva. Di certo l’unica ragione per farlo, magari in via temporanea, è accompagnare e soprattutto controllare l’attuazione del nuovo piano industriale».
Immaginiamo un piano debole, con prospettive di perdite. Entrereste?
«Va visto nel quadro del piano di ArcelorMittal nel mondo. È inaccettabile che la capacità produttiva di Taranto venga tenuta a un livello troppo basso solo perché da qualche altra parte del mondo gli impianti dello stesso gruppo viaggiano a pieno regime. E questo rischio c’è».
C’è chi teme che si buttino soldi dei contribuenti per tenere in piedi una struttura che non regge.
«Lo capisco. Ma se sviluppiamo il piano per Taranto e intanto lo Stato entra nell’ex Ilva, con posti nel governo societario, può fornire un presidio e far sì che si possa andare avanti e innovare. Come parte pubblica dobbiamo far pace con noi stessi: se mentre il governo negozia con i Mittal qualcun altro compie atti che indeboliscono il negoziato, la strada diventa più in salita».
Sulla Pop Bari il governo interviene tramite Mediocredito centrale, una vostra controllata. Che però è dieci volte più piccola della Bari stessa e non ha mai gestito una banca commerciale.
«Intervento tardivo ma inevitabile. Se fosse solo l’ennesimo salvataggio che spalma sugli italiani il costo che spetterebbe un gruppo di persone, sarebbe una follia».
Perché, cos’è invece?
«L’accesso al credito al Sud è più problematico e costoso che nel resto d’Italia. Il settore bancario lì è polverizzato e ora minacciato dalla rivoluzione tecnologica. L’idea è che a questa nefasta ma necessaria evenienza si possano aggiungere altre aggregazioni di piccole banche del Sud. Si può metterle a sistema, valorizzarle e poi, perché no, riportarle sul mercato. Questo non è solo il salvataggio della Bari».
Cosa dirà al politico di turno che le chiederà di prestare agli amici degli amici?
«Che con me Invitalia si è trasformata da carrozzone – la definizione più gentile – in una moderna agenzia di sviluppo. Qua c’erano 316 società, ora sono quattro».
Sul ruolo dei governi, c’è un cambio di approccio in Italia e in Europa. Giusto tornare all’interventismo?
«Sì, senza sognarsi di replicare quello di un tempo. Anche in Italia serve un maggiore gradiente pubblico, capitale paziente ma che non occupi ogni spazio. Cercando di guardare alle esigenze del futuro, non solo a interventi difensivi di realtà storiche».
Pare che il governo non voglia lasciar fallire nessuno.
«In un’economia di mercato si può anche fallire. Lo Stato non esiste per evitare che chi deve farlo, lo faccia».