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 2019  dicembre 18 Mercoledì calendario

La studentessa che s’è presa l’Hiv in un laboratorio studiano per la tesi


Una battaglia legale che si preannuncia impervia, una sfida per la scienza, una lotta contro lo stigma sociale che accompagna ancora il virus che ha contratto: l’Hiv. E una doppia vita di segreti, sofferenze e rinunce. Tutto per un inspiegabile incidente avvenuto mentre da laureanda svolgeva degli esperimenti nel laboratorio di un Istituto europeo di altissimo profilo, con un livello di sicurezza che sembrava inattaccabile. Federica, come la chiameremo, non vuole più portarne il peso da sola. Forse per questo ha accettato di raccontare la sua storia, dopo aver deciso di fare causa di fronte al Tribunale di Padova ai due atenei responsabili del progetto, quello italiano di partenza, e quello estero, dove sarebbe avvenuto il contagio, chiedendo un risarcimento milionario. «Lo faccio per i giovani come me. Ragazzi e ragazze che consegnano le loro vite nelle mani di chi dovrebbe tutelarle», racconta nello studio del suo legale, l’avvocato Antonio Serpetti del Foro di Milano.
La storia comincia alcuni anni fa, quando Federica, appena laureata con lode, va a donare il sangue. Sono i giorni di Natale e una telefonata la fa precipitare nell’incubo: «Il 26 dicembre mi chiama il medico dell’ambulatorio: c’è un problema con la donazione, dice, sei sieropositiva. Resto senza fiato. Non ho nessuno dei fattori di rischio previsti. Dopo lo choc iniziale, ripenso subito agli esperimenti che avevo fatto sette mesi prima all’estero, quando mi erano stati fatti manipolare pezzi del virus. Ma erano virus che non potevano replicarsi, cosiddetti difettivi».
La scoperta segna l’inizio del calvario. «Il mio ragazzo mi lascia, mi trovo sola e cado in depressione». E non basta. Di fronte alle richieste di aiuto, gli atenei scompaiono. Pregiudizi, allusioni. Federica li affronta. «Capisco che l’unico modo per ottenere giustizia è dimostrare che il virus che ho contratto è lo stesso che c’era nel laboratorio, e non quello che circola tra gli uomini». E per farlo si affida, a sue spese, a uno dei centri più avanzati di ricerca in Italia per l’Aids, che a sua volta chiama in causa il Laboratorio di Virologia dell’Università di Tor Vergata, a Roma. Ci vogliono altri cinque anni per imboccare la strada giusta. Federica continua a mantenere il segreto, con gli altri, e si sforza di costruirsi una vita parallela. Trova un lavoro di ripiego, inadeguato alle sue potenzialità. Soltanto i genitori e pochi amici conoscono la sua storia.
Il mistero
I ricercatori parlano di un caso «disturbante»: non si capisce come sia avvenuta l’infezione
Alla fine il gruppo di scienziati di Tor Vergata, grazie alla sequenza genica, dimostra che il virus di Federica è dello stesso tipo di quelli «sintetici» utilizzati nei laboratori. Nello studio, pubblicato da una prestigiosa rivista scientifica, gli esperti aggiungono che si tratta di un caso «disturbante» perché, a fronte del fatto che non si sarebbe verificato alcun incidente visibile (nessun guanto rotto, nemmeno una puntura accidentale), non si capisce come si sia potuto trasmettere il virus. Prendono anche in considerazione l’ipotesi di una trasmissione «via aerosol».
Federica ammette: «La verità è che non ho idea di cosa possa essere accaduto. Da allora me lo chiedo tutti i giorni. L’unica certezza è che non dovevo essere esposta a un virus capace di replicazione». Resta inevasa la seconda domanda più importante, dopo quella su come sia potuto accadere: chi ha sbagliato? Qui la giovane donna non vacilla: «Lo dovrà stabilire il tribunale. La mia vita è stata distrutta. E c’è una cosa che continua a tormentarmi: che nessuno preparò me e gli altri studenti che entrarono nel laboratorio a quegli esperimenti. Non ci diedero nessuna indicazione sulla sicurezza. Com’è possibile che ragazzi giovani siano messi in queste condizioni?».
Federica, finora, ha dovuto affrontare il suo percorso da sola, con i familiari. Non si vergogna di ammettere di aver sofferto. «Una delle cose che più mi hanno fatto male è che dai due atenei nessuno si è mai fatto sentire. Non una parola o una telefonata. Per questo ai rettori dico: non dimenticatemi e fate in modo che non accada mai più».