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 2019  dicembre 18 Mercoledì calendario

La morte di Ceausescu

«Mi dissero: è in una piccola scuola fuori Bucarest. Vai. C’è da fargli il processo». Il procuratore militare Dan Voinea beve un tè e scruta la finestra con le renne che addobbano la caffetteria: «Fu un Natale terribile. Firmai io il mandato d’arresto. Poi presi l’auto, attraversai le strade piene di cadaveri e andai a Targoviste. Capii che stavo per entrare nella storia». Oggi Dan è in pensione, ma ricorda ogni istante: aprì la porta e si trovò davanti la coppia Ceausescu. «Non li avevo mai visti così da vicino. Nessuno poteva stare mai a meno di cento metri da loro». Dan rimase impietrito. «Li guardavo, ed erano il potere spogliato di tutto». Chiese le carte, l’elenco dei testimoni. «Mi risposero che non c’era tempo». Allora fissò il dittatore e la moglie, fece la prima domanda. «Lui ricambiò lo sguardo con disprezzo. Mormorò qualche insulto. Rispose che non ci riconosceva come tribunale e che avrebbe parlato solo all’Assemblea nazionale». A Dan non restò che la requisitoria. «L’accusai di genocidio e crimini contro l’umanità. Dovevo rispettare le procedure: mi voltai verso il suo avvocato per sapere se voleva appellarsi. Il difensore fece di no con la testa. Fui stupito: era molto più severo lui di me!».
Il processo durò poco. «Dalle 14 alle 15,10. Credevo fosse un’udienza preliminare, invece si decise d’eseguire subito la sentenza». Trent’anni dopo, con la saggezza dei suoi 69, Dan se lo chiede: fu vera giustizia? «Non pensavo l’avrebbero fucilato. Fosse rimasto vivo, l’avremmo processato meglio e forse avrebbe avuto l’ergastolo. Ma in fondo, con lui morto, tutti si sono sentiti liberi di tradirlo. Il nostro comunismo aveva una testa sola: tagliata quella, morì il corpo». Rivoluzione o golpe? «Né l’una, né l’altro. Cominciò con una rivolta, a Timisoara. Si trasformò in una rivoluzione, a Bucarest. I soldati si strapparono le mostrine, un po’ del regime passò col popolo: questo permise a molti comunisti di riciclarsi al potere».
Unde esti, Ceausescu? Trent’anni dopo la più sanguinosa e controversa rivoluzione dell’Est, inutile chiedersi dove siano finiti i 40 fra discendenti e favoriti del «Genio dei Carpazi». Sottoterra in Romania, somewhere in America. Anonimi, nascosti, riciclati. Vai a cercare Valentin, fisico in pensione, unico figlio sopravvissuto, e ti fa sapere che gli interessa solo il campionato dello Steaua. Incontri un cugino e lui sghignazza: «Quello stronzo: nemmeno noi di casa potevamo criticarlo. Mio padre una volta lo cacciò a dormire fuori: ma fu nel ’56, Zio Nicu era ancora un piccolo funzionario di partito. Dopo, sarebbe stato messo a morte».
Ceausescu, dove sei? Scornicesti, diecimila abitanti a due ore da Bucarest, è la Predappio romena. Il villaggio natale. Ah, come funzionavano le cose a Scornicesti, quando c’era Lui!… Nel ventennio ci lavoravano i migliori accademici. Si riuniva qui il Patto di Varsavia. E nello stadio esagerato, dove s’era sempre giocato in serie D, di colpo gli squadroni s’adattavano a perdere 18 a 0 e la squadretta sognava la Uefa. Chi ci viene più, a Scornicesti? La gente emigra. Non esistono nemmeno i banchetti dei souvenir.Solo un orribile busto bianco, risparmiato dalla furia ’89. E il sindaco Ion Prioteasa a nascondere geloso un ritratto del Conducator nello sgabuzzino del municipio e a dire che no, ma quale festa, per il trentennale non c’è proprio nulla da celebrare: «Quei giorni feroci levarono il sonno anche ai morti. Perfino i crani dei genitori di Ceausescu furono dissepolti, per giocarci a calcio sulla stradina del cimitero». Alla casetta-santuario col tetto tataro di paglia, tre stanze contadine in fondo al curvone, passano sì e no 40 pellegrini la settimana. Ed è solo al compleanno di Ceausescu, in gennaio, che Scornicesti si rianima: il pope dice messa e guidati da Petre Ignatencu – tassista che si vanta di conoscere Bertinotti e fa il segretario di 200 iscritti al mini Partito comunista romeno – prima si va sulle tombe di Zio Nicu e d’Elena, alla periferia di Bucarest, poi qui. «Il 21 dicembre 1989 non è l’anniversario della Rivoluzione: è il giorno del Grande Crimine. La memoria dolorosa dell’unico errore che fece Ceauşescu in vita sua: non aver capito che lo stavano tradendo».
I romeni sono il popolo più fatalista del mondo, diceva Emil Cioran, ma quel 21 dicembre il destino se lo fabbricarono da soli. Calpestati, depredati, nessun paradiso comunista toccò mai quei punti d’inferno: senza luce né riscaldamento, una paranoia nordcoreana dove si collettivizzavano le campagne e deportavano i contadini. I piccoli disabili abbandonati con le camicie di forza in orfanotrofi pieni di topi: si calcola che ne morirono almeno 20mila. La «polizia mestruale» sorvegliava le donne perché non provassero ad abortire. Un Paese di schiavi costretti alla fame, per soddisfare Zio Nicu: megalomane capace di costruirsi il secondo palazzo più grande del mondo dopo il Pentagono, una Versailles da un migliaio di saloni con marmi, cristalli, parquet intarsiati e tende filate d’oro. Un popolo a libro paga della Securitate che stipendiava il terrorismo internazionale, Br comprese: tutti spiavano tutti, ogni 50 cittadini un agente dei servizi, i bambini educati a denunciare i genitori.
Bastò un mese, caduto il Muro di Berlino, perché ci fosse il più fragoroso dei big bang: la pubblica contestazione, gli spari sulla folla, i 1.104 morti, la fuga. George Militaru – regista personale di Ceausescu, una vita a «mandarlo in onda solo sul profilo sinistro, per nasconderne la macchie del viso» – fu l’uomo che trasmise processo e fucilazione del dittatore. Scappato pure lui, venne per un po’ a lavorare in Rai («facevo Domenica in») e ora che è tornato, è amaro: «I conti con quel passato non li abbiamo mai fatti. Perché gli ex, alla fine, sono rimasti tutti al loro posto». In trent’anni, ci sono state solo due condanne. Un mese fa, è (ri)cominciato il processo all’ex presidente Ion Iliescu, 89 anni, 3.500 testimoni citati in aula, accusato d’essersi riciclato al posto di Ceausescu spalmando il silenzio sui crimini d’allora. «Ci sono ancora in servizio decine di uomini della Securitate che commisero delitti», elenca lo storico Marius Oprea, presidente dell’Istituto di ricerca sui crimini del comunismo: «300mila morti, 651.087 detenuti torturati – il 25% dei quali morì in prigione —, 8mila esecuzioni sommarie, 5mila condanne capitali. Non basta una vita, a indagare su tutti». Con una trentina d’archeologi, Oprea va in cerca di fosse comuni e di morti senza nome: «I desaparecidos sono almeno 150mila. Chi moriva nei campi di lavoro o nelle mani della Securitate, veniva sepolto di nascosto e senza nome: dopo trent’anni, molte famiglie non sanno nulla dei loro cari». Ma perché non se ne parla? «Si pensa sia passato troppo tempo. E poi nessuno ha chiesto mai chiarezza agli ex comunisti, rimasti al governo. Nessuno ha interesse, nemmeno l’Europa. Tanti leader delle sinistre avevano a che fare con Ceausescu, anche italiani: da Berlinguer a Napolitano. La regina Elisabetta lo riceveva a Londra con le carrozze e i cavalli». Per le sue ricerche, Oprea ha ricevuto minacce: «Ho dovuto mandare moglie e figli in Germania. Toccare certi argomenti, è difficile».
Lui non se n’è mai andato davvero. A Bucarest, non esiste un museo del comunismo e nella libreria Humanitas, centralissima, hanno solo un libro di foto sul 1989: narrativa, zero. C’è qualche Revolution Tour per i turisti e la visita guidata alla reggia del tiranno, oggi il Parlamento, o fra le piccole cose di pessimo gusto nella villa di Bulevardul Primaverii, alla cassa ancora un paio di vecchie colf che lavoravano per la terribile Elena. Solo a teatro e fra pochi intimi si ride un po’ con la satira di ’90 (storia d’una coppia nel post-regime) e nel cinema sono ormai datati i classici «The Paper Will Be Blue» e «12:08 East of Bucharest». Solo a Londra o a San Francisco, non qui, vanno pazzi per le rivisitazioni deformate di Ceauşescu dipinte da Adrian Ghenie. E nei libri di scuola, tre paginette scarse dedicate all’epoca. Molti anziani rimpiangono le sicurezze dello Stato socialista e i ritratti simbolo dell’89 sono sbiaditi: padre László Tőkés, il calvinista transilvano che accese la rivolta, è un separatista ungherese amico di Orbán; Florin Vieru, il ragazzino con la bandiera bucata che finì fotografato sulle prime pagine di tutto il mondo, fa il tassista; Dorin Marian Cirlan, il parà che sparò a Ceausescu, licenziato dall’esercito vive con gli psicofarmaci. E che ne è delle migliaia di bimbi Victor e Victoria nati nei giorni della rivolta vittoriosa? Li hanno invitati a uno special tv: non s’è presentato quasi nessuno.