Linkiesta, 17 dicembre 2019
E se la Brexit filasse liscia
È con un certo distacco, che le istituzioni comunitarie hanno osservato per tre anni la saga della Brexit. Ed è anzi solo su questo dossier che gli altri ventisette Paesi hanno trovato un accordo graniticamente unanime durato per trentotto mesi. Comincia però adesso, all’indomani della vittoria di Boris Johnson alle elezioni della settimana scorsa, una partita assai diversa. Se il grande «clown» (come lo chiamano molti dei suoi spocchiosi avversari) riuscisse a smentire tutti gli economisti e gli analisti politici che prevedono per Londra ogni genere di disgrazia per aver osato scegliere una strada mai tentata prima, il Regno Unito rischierebbe di diventare il caso che dimostra che non è vero che dall’Europa non si può uscire. E che, addirittura, si può stare relativamente bene senza. Ed è questa ulteriore sfida che rende ancora più urgente quella “rifondazione” che restituisca all’Unione la capacità di rispondere alla concorrenza con modelli – tra i quali quello anglosassone – con i quali si troverà a competere.
Che esista l’ipotesi che gli inglesi sopravvivano alla Brexit, è, del resto, confermato da ciò che avvenne alla fine del 2016 e dall’ammissione a cui furono costretti il Governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, ed il suo Chief Economist, Andrew Haldane. In quell’occasione, subito dopo il referendum vinto a sorpresa dai leavers, fu prevista – da quasi tutti gli analisti – una recessione ed una consistente fuga di capitali. Che spinse la Banca Centrale di Londra a ridurre i tassi e a iniettare liquidità consistente nel sistema.
Certo l’economia inglese ha subito un rallentamento negli anni successivi al referendum scendendo da ritmi di crescita leggermente superiori a quelli medie europei (2,4% nel 2015) a tassi lievemente inferiori (1,8% nel 2018). Tuttavia, la recessione non ci fu mai e Haldane arrivò a riconoscere che la dimensione dell’errore è un’ulteriore dimostrazione che l’intera “professione” degli economisti è in crisi.
Non è escluso che ancora più che nel 2016, anche stavolta l’economia britannica possa smentire gli esperti di un mestiere che furono gli inglesi stessi a inventare e modelli econometrici che sembrano non aver incorporato le grandi discontinuità di questi anni (a partire da quella tecnologica). Ciò diventerebbe ancora più probabile se la perfida Albione si mettesse a farci concorrenza usando la clava fiscale.
È ugualmente molto più difficile di quello che alcuni europei sembrano pensare, un’eventuale disunione del Regno stesso, per effetto della volontà degli scozzesi di voler tornare in Europa e degli irlandesi del Nord di voler tornare insieme a quelli del Sud.
È vero che il Partito Nazionalista Scozzese ha avuto un grande successo e che ha l’indipendenza come primo punto della sua agenda. Tuttavia, sarebbero quasi esclusivamente identitarie – come per la Catalogna – e non economiche, le ragioni di una separazione all’altezza del Vallo di Adriano, in quanto gli scozzesi senza l’Inghilterra si ritroverebbero, persino, senza moneta. Senza sterlina perché il governo inglese potrebbe decidere di non autorizzare Edimburgo a batterne per proprio conto; e senza l’Euro perché pur uscendo dal Regno, ci vorrebbero anni per il nuovo Stato per aderire all’Unione monetaria.
Incendiaria sarebbe, poi, l’ipotesi di una secessione della piccola provincia dell’Ulster: è probabile che a Belfast convenga accontentarsi di una separazione di fatto (sancita dal confine doganale che le merci incontrerebbero nei porti inglesi) senza rischiare le conseguenze di un’indipendenza formale che potrebbe portare ad una nuova guerra civile.
Non è escluso, dunque, che il Regno rimanga unito. E che, anzi, libero di poter negoziare un accordo – difficile ma necessario per entrambi – con l’Unione Europea, riesca a salvaguardare i propri interessi commerciali, liberandosi di certe contraddizioni e rigidità che l’adesione all’Unione comporta.
Se Johnson vincesse anche la seconda parte della sua scommessa dopo aver portato a termine la Brexit, non solo si assicurerebbe l’inizio di un vero e proprio ciclo di potere comparabile con quello di Blair. Ma finirebbe con il creare un caso che altri potrebbero imitare, facendo contenti altri sovranisti (a partire da Trump) con i quali non è esclusa la possibilità che ci sia una strategia comune.
È questo un motivo in più per considerare la Brexit una sfida ulteriore che noi europei dobbiamo affrontare con intelligente preoccupazione e non con distacco. Che riguarda anche noi e non solo un partner che proprio perché così vicino – geograficamente e per cultura – potrebbe diventare il nostro più temibile concorrente. A meno che non riuscissimo, con intelligenza, a costruire una nuova forma di integrazione che comporterebbe un ripensamento anche di quella che abbiamo.