il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2019
Intervista a Zucchero
Zucchero: artista vulcanico. Anima inquieta. E miniera vivente di aneddoti seriali.
Ha appena suonato a New York. C’era anche Springsteen.
Un evento di beneficenza organizzato dal mio amico Sting. Conoscevo Bruce, ma non ci avevo mai suonato. È un uomo garbato, di poche parole. Dopo il concerto, mi ha detto: “Great job!”. E mi ha abbracciato. Il massimo dello slancio, per lui.
E Clapton?
Venne a vedermi in incognito nell’88 ad Agrigento, ce lo portò Lory Del Santo. Entrò a fine concerto e disse: “Il mondo ti deve conoscere, mi segui in tour?”. Tra noi è nata così. È un amico vero, spesso se ne sta in Islanda a pescare i salmoni col leader dei Procol Harum.
Nel suo D.O.C., racconta un’umanità intrisa di apparenza.
Sognavo un mondo autentico. Sono cresciuto tra il sacro e il profano, studiavo l’organo in Chiesa e frequentavo i bar del Pci. Mio zio era leninista, litigava sempre col prete, ma poi la domenica lo invitava a casa per non farlo stare solo. Don Camillo e Peppone. Un mondo genuino e vero.
E adesso?
Accettiamo tutto e non scendiamo in piazza per niente. Sì, ora ci sono le Sardine, ma devo capirle: chi sono? Chi c’è dietro? È presto per valutarle. Scenderei in piazza subito per l’ambiente, ma i potenti se ne fregano. Anche con Live8 o “cancella il debito” di Bono non è cambiato un cazzo. E questa impotenza mi fa male.
Si descrive come un cane che torna a casa “a sbranare gli aquiloni”.
Da bambino fui sradicato. Seguii mio padre e da Roncocesi mi trovai a Forte dei Marmi. Non mi sono mai ambientato e ne ho sofferto. Gli aquiloni sono la mia infanzia sbranata.
Lei ha un feeling particolare con Panella.
Non l’ho mai visto dal vivo. Dice che, se dovesse venire da me, sarebbe costretto a viaggiare in treno e vedere le bruttezze del mondo. Lavoriamo così: io gli mando le musiche con un inglese maccheronico, lui usa quel cantato come componente “pretestuale” e dopo poche ore mi manda cinque versioni di testo per ogni musica. Un genio. Io ci lavoro e qua e là abbasso, perché Pasquale vola sempre alto.
De Gregori, Fossati, Guccini.
Tre persone dritte, serie, senza falsità. Come piacciono a me. A De Gregori chiesi il testo di Diamante: parlando di mia nonna, mi serviva un poeta “esterno”. Io sarei stato retorico: le volevo troppo bene. Ci trovammo a Modena e la scrisse in due ore. Fossati l’ho sempre trovato bravissimo e Guccini è il mio fratellone. Vado spesso da lui a Pavana. Quando sua madre Rina era ancora viva, me la ricordo che mi diceva in dialetto: “Adelmo, fai qualcosa con mio figlio, è uno bravo!”. E Francesco che borbottava: “Che due maroni, mamma!”. Lui è bravissimo. E lentissimo.
I suoi sfoghi sono noti.
Ricordo Cala di Volpe. Salgo e mi trovo davanti una tavolata di russi che mangia. Una di loro parlava forte al telefono mentre suonavamo. Dopo un po’ le chiedo di spegnere e lei mi fa il gesto del dito medio. La Santanchè mi grida che sono lì per cantare e non per parlare. Accanto mi pare avesse Totò Cuffaro. Qualcuno mi grida “comunista!”. Mi è partito il poeta dentro e son partito col “monologo del baraccone”. Loro mi tiravano i limoni, io gli lanciavo i Gatorade. Una guerra. Volevo smettere, ma il manager mi ha detto: “Devono ancora pagare!”. Così son risalito.
A marzo partirà con un tour mondiale.
All’inizio era dura. Al Live in Kremlin ebbi un attacco di panico prima di salire. Guardavo la band per nascondermi e il pubblico non applaudiva mai. Gli avevano detto di farlo solo alla fine, ma questo lo scoprii soltanto dopo. Ero convinto di fargli schifo. Per il tributo a Freddie Mercury sudavo freddo. Nel camerino accanto c’erano Annie Lennox e David Bowie. Leggo il cartello: “5 minutes Zucchero”. Penso: “Sto andando al patibolo”. Dovevo attaccare il brano con la chitarra, ma sul palco la chitarra non c’era: tutta Wembley che mi guarda fallire. Osservo con aria atterrita Brian May: lui per fortuna capisce, parte con la chitarra. E mi salva.
Oggi lei ha tutto. O così sembra.
Dal ’90 al ’93 ho visto l’inferno. Il successo mi destabilizzò. Ero a un passo dall’inabissarmi per sempre, mi domandavo perché Miles Davis e Joe Cocker perdessero tempo con me. Non la auguro a nessuno quella depressione lì.
Mai pensato di andare ad abitare all’estero?
Mai. Non posso non stare a Roncacesi, nel mio mondo e fuori dal mondo. Devo però ammettere che in nessun altro Paese come l’Italia vedo questa rassegnazione e questo spegnimento. Com’è che diceva Gaber? Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.