la Repubblica, 17 dicembre 2019
Il bambino di 9 anni che vedeva solo la luce ora vede tutto: «Le persone, i cassonetti della spazzatura, le macchine ferme»
«La benda, Matteo l’ha strappata dagli occhi in macchina, un attimo prima di fermarsi davanti casa. Faceva fatica a parlare. Era quasi intimorito dalla vita che aveva davanti: “Mamma, ti vedo. Che meraviglia. Anche adesso, di sera e senza lampadine. Vedo tutto, le persone, i cassonetti della spazzatura, le macchine ferme"». Quelle prime parole Giusy non le dimenticherà mai. E ieri, dal soggiorno della sua casa, a Grottaglie, in provincia di Taranto, dove è nata e abita con il marito e altri due figli (Francesca e Valerio, 15 e 14 anni) racconta la sua storia. È quella di un miracolo reso possibile dai progressi dell’ingegneria genetica che ha restituito la vista a suo figlio che adesso di anni ne ha 9, ma che già dai primi giorni di vita «si capiva che qualcosa non andava».
Lui è nato con una malattia rara (in Italia se ne contano poche centinaia) di “distrofia retinica ereditaria”. Si identifica nella progressiva degenerazione dei fotorecettori (coni e bastoncelli) che a sua volta causa una rilevante riduzione della capacità visiva. In qualche caso, i sintomi si manifestano subito, come è stato per Matteo, e si arriva alla cosiddetta cecità notturna, cioè alla perdita quasi totale della vista, soprattutto dopo il tramonto. «Mentre lo allattavo, i suoi occhi fissavano solo la luce, naturale o artificiale. Mai guardava me». Passano i giorni, ma anche a casa Giusy continua a dubitare, nonostante il pediatra di fiducia la rassicuri, bisogna aspettare le diceva. Ma al sesto mese la situazione non migliora. Consultano un oculista, a Taranto: «Bravissimo. Fu lui per primo a sospettare la malattia genetica. E lui poi ci ha salvato, indirizzandoci alla professoressa Francesca Simonelli che al Policlinico dell’università Vanvitelli di Napoli dirige la clinica Oculistica e che da 12 anni aveva iniziato la sperimentazione su questa malattia grazie a un farmaco che interviene sui geni anomali».
Intanto Matteo cresce, a un anno cammina, vede pochissimo. «Il campo visivo – dice Giusy – era concentrato come attraverso un binocolo. Gli mancava l’area a periferica.A tre anni la conferma diagnostica. Ci cadde il mondo addosso. La Simonelli ci disse: non abbiate paura, il bambino è piccolo e la ricerca va avanti. Ma di sera non vedeva quasi nulla». Matteo però conduce una vita quasi normale. «Nessun insegnante di sostegno, anzi mio marito, sapendo che da questa malattia non si guarisce, gli faceva capire che se la sarebbe dovuta cavare da solo nella vita. E così è stato, solo per andare in bagno l’accompagnava la maestra. Col sole andava a giocare a pallone, almeno ci provava, poi all’imbrunire tornava nella bottega di ceramiche che gestisco a Grottaglie. Rimaneva lì, seduto ad aspettare. E quando si alzava, procedeva come un cieco».
«"Mi posso illudere?” domandò un giorno mio marito a un medico dell’équipe. Gli rispose: “Molto più di un’illusione"». Il 27 novembre Matteo entra in sala operatoria. Per 90 minuti, quelli necessari a iniettare in retina il farmaco voretigene neparvovec. approvato prima negli Usa dove costa 850mila doll ari e adesso somministrabile anche in Italia. Matteo era stato selezionato insieme a un’altra bambina pugliese. Ricoverati insieme, pronti a sostituirsi a vicenda. Esulta la professoressa: «È il punto di partenza per curare in futuro molti pazienti».