Corriere della Sera, 17 dicembre 2019
Ecco come si sono rovinati gli azionisti della Popolare di Bari
Nel 2014 la signora era nel sesto anno di una sclerosi multipla complicata da una progressiva sordità da entrambe le orecchie e da un’osteoporosi grave. È allora che l’addetto della sua filiale della Banca popolare di Bari le fa una proposta.
La signora dovrebbe comprare sempre nuove quote dell’istituto stesso, a un prezzo «speciale» del 6% più basso del valore di 9,53 euro per azione. Oggi valgono zero.
La signora, un’ex insegnante di religione delle scuole elementari, vedova, obbligata alla sedia a rotelle e con figli da mantenere, ha investito nella banca popolare della sua città 181 mila euro. Tutti i risparmi della sua famiglia. Nel suo caso pende un ricorso all’Arbitro per le controversie finanziarie e al Tribunale per ottenere un indennizzo completo, ma a discolpa degli impiegati della Popolare di Bari vale una constatazione: spesso, hanno rovinato i loro stessi familiari. Fra il 2014 e il 2016 hanno venduto azioni senza mercato e ora senza valore ai loro fratelli, alle sorelle, alle madri e ai padri anziani. Le hanno vendute agli amici e ai cognati.
«Sto difendendo una valanga di parenti stretti dei dipendenti della banca», dice l’avvocato Antonio Pinto, che per Confconsumatori sta presentando ricorsi per circa duecento risparmiatori. «Sempre più spesso mi capita di fare lo psicologo fra fratelli e sorelle, mogli e mariti». Nelle ondate di aumenti di capitale più recenti, stima Pinto, la Popolare di Bari ha distrutto 550 milioni di euro di risparmio delle famiglie. Il fatto stesso che i direttori di filiale e i consulenti finanziari vendessero ai loro parenti dimostra che, fino a tre anni fa, neanche loro si rendevano conto di cosa stavano facendo: riempivano i conti di analfabeti finanziari sempre con lo stesso titolo impossibile da rivendere, a prezzi assurdi, senza informare dei rischi, a volte senza neanche tutte le firme necessarie.
Forse non era malafede (in certi casi, nelle filiali). Sempre e comunque era il punto di arrivo di una piramide di incompetenza: un’azienda che seleziona quadri capaci di rovinare i loro familiari non può avere manager degni di questo nome. L’ex presidente Marco Jacobini, i suoi figli Gianluca e Luigi – già condirettore e vicedirettore generale, oggi l’uno contro l’altro – l’ex direttore generale e poi amministratore delegato Vincenzo De Bustis si difenderanno in tribunale dai reati di cui sono accusati (tra i quali l’ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia).
La sentenza c’è però già sul fatto che un mondo e un modello siano finiti. Prima della grande crisi e dell’Unione bancaria in area euro, che sposta poteri di controllo a Bruxelles e Francoforte e limita l’intervento pubblico proprio quando gli istituti sono più fragili, la Banca d’Italia aveva una sua strada. Dal 1936 la legge le assegna come prima missione, oltre alla politica monetaria, la stabilità finanziaria e non la tutela dei consumatori: ancora oggi quest’ultima non figura fra le funzioni indicate nel sito web dell’istituto. In un Paese paralizzato dal debito pubblico e dalla vita breve dei governi, i banchieri centrali si sono dunque affidati spesso a banchieri privati di provincia perché questi assorbissero concorrenti falliti e ne tamponassero i dissesti. Anche a costo di dover chiedere sempre nuove risorse ai correntisti. Anche a costo di ritrovarsi alla fine gonfi di hybris, di clientele opache, crediti inesigibili (e di segnalazioni alle Procure, quando serviva, da parte della stessa Banca d’Italia). È stata questa per anni la storia di Cesare Geronzi con Banca di Roma, di Gianni Zonin con la Popolare di Vicenza e degli Jacobini a Bari, quando si è trattato di salvare la teramana Tercas nel 2014.
Ma ormai i tempi erano cambiati. La Commissione Ue decreta che i 270 milioni versati a Bari dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) per favorire l’operazione sono aiuto di Stato. Nel 2018 la Corte di giustizia Ue sconfesserà quel giudizio perché il Fitd è privato, ma ormai è tardi: la Bari aveva già colmato l’ammanco aggredendo ancora una volta i risparmi dei propri ignari clienti.
Uno di questi è Salvatore Squillace, 42 anni, imprenditore barese nel turismo e nella rivendita di computer. Con il suo socio chiede un mutuo da 100 mila euro per l’acquisto di un immobile, che gli viene concesso solo dopo che ha comprato azioni della Popolare. «Siamo stati sprovveduti – ammette —. Eravamo ignoranti, non pensavamo che uno scandalo del genere fosse possibile». Ora Squillace spera di riavere parte dei 60 mila euro che ha perso, ma c’è qualcos’altro che lo preoccupa: ha letto che il governo nazionalizzerà la Bari. L’idea di una banca pubblica non lo tranquillizza affatto. «Ho sempre paura della politica e della burocrazia – dice —. Lei non immagina neanche cosa vuol dire aprire un’attività qui. Devi combattere con tutti».