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 2019  dicembre 17 Martedì calendario

Lasciamo in pace le sardine

La prima lezione politica suggerita dalla manifestazione romana di sabato è così riassumibile: “lasciamo in pace le sardine”. È questa la condizione preliminare perché l’attuale mobilitazione possa conquistare una sorte diversa da quella di altre mille avventure precedenti. Basta un po’ di memoria e una verifica su Google per ricostruire una sequenza, probabilmente parziale, di novità che via via hanno fatto irruzione sulla “terra desolata” del nostro scenario politico. Dunque, per limitarci all’ultimo quarto di secolo: La Rete, Boicottiamo il Biscione, Donne in nero, Disobbedienti, Girotondi, Lenzuoli Antimafia, Agende Rosse, Popolo Viola, movimento Arancione, Vaffa Day, Forconi, Madamine di Torino. Tutte queste esperienze hanno suscitato via via curiosità e insofferenza, aspettative di catarsi e frustrazioni deprimenti. Di esse, quasi nulla è restato, se non – cosa non trascurabile – impreviste aperture di spazi per forme inedite di partecipazione, transitorie ma tutt’altro che inutili. Ma, sul piano politico e istituzionale, è rimasto solo quanto di più convenzionale è stato prodotto da quei movimenti: ovvero alcuni dirigenti, leader o capetti, che hanno saputo trasferire negli apparati dei partiti ciò che avevano appreso nell’azione di piazza. E invece, c’è qualcosa tra le sardine che può essere in grado di esorcizzare questo eterno ritorno alla normalità dei codici politici tradizionali. Le sardine, più che un movimento costruito sul modello classico dell’azione collettiva come si è sviluppata negli ultimi due secoli, possono definirsi innanzitutto uno stato d’animo. Una condizione emotiva, un sentimento collettivo, forse una “reazione cutanea dell’anima” (Marco Taradash) o “il sottosuolo della politica” (Emanuele Macaluso). Ma è proprio questo che le rende sfuggenti e imprendibili. E di conseguenza più efficaci nel mettere in difficoltà l’avversario. Le sardine lavorano nell’ombra e sott’acqua, con un andamento carsico che, prima di manifestarsi nelle piazze, si esprime come un “corpo intermedio tra la politica e il mondo civico attivo” (dal loro Manifesto). Ma in democrazia contano i voti e il numero di voti ottenuto da ciascun partito. E tuttavia conta in misura rilevantissima tutto ciò che precede il gesto finale di infilare la scheda nell’urna: sentimenti e risentimenti, interessi materiali e morali, condivisione e comunanza con i prossimi e i sodali, senso di appartenenza e voglia di incontro, conversazioni e scambi. È questo lo spazio dove le sardine garantiscono una presenza e un orientamento, e una forma di continuità. I movimenti tradizionali, tutti, seguono un percorso progressivo che va dal piccolo al grande, aggregando successivamente un numero maggiore di individui e dotandosi di strutture organizzative e di gruppi dirigenti, più o meno formalizzati, ma sempre fondati sul principio della delega. Questo, finora, per quanto riguarda le sardine, è accaduto nella misura dello stretto necessario e non sembra aver compromesso la loro peculiarità. Ed è sempre questo che le rende così inafferrabili. Non solo dalla destra, ma anche dalla sinistra in tutte le sue componenti. La maggiore risorsa politica delle sardine, infatti, risiede nella loro apparente impoliticità. Intanto perché sembrano riuscire a mantenersi estranee – un vero miracolo – a tutti i riti e i vizi della politica politicante e partitocratica. E lo svolgimento, lo stile e l’esito della manifestazione di sabato e della successiva assemblea dei 150 coordinatori – prova ancora più temibile – fa ben sperare per il futuro. Detto questo, ed espiando il fatto che anche queste mie considerazioni si qualificano come un’interferenza indebita, la sola conclusione possibile è: lasciamo in pace le sardine. Qui non c’è bisogno di fare ricorso al pensiero acutamente conservatore del Thomas Mann di Considerazioni di un impolitico e nemmeno alla riflessione radicale della Simone Weil della proposta di soppressione dei partiti politici, per comprendere quanto ampio sia lo spazio per un’azione pubblica totalmente diversa da quella che passa attraverso i canali convenzionali. È utile, piuttosto, il libro di Adriana Cavarero Democrazia sorgiva, che riflette sull’elaborazione di Hannah Arendt a proposito di una politica come potere diffuso, partecipativo, relazionale e plurale. Insomma, facciano le sardine ciò che meglio credono e ciò che meglio sanno fare e hanno saputo finora fare proprio “in quanto sardine”. Inventino le future forme di azione collettiva e le modalità più efficaci di relazione con il sistema politico-istituzionale, rimanendone a una giusta distanza. Se, poi, tanta novità di linguaggio e di comportamento si traducesse in un assessorato di una giunta regionale, non ci sarebbe certo da scandalizzarsene, ma nemmeno da rallegrarsene oltremodo. Tanto meno se venisse giustificato col fatto che “solo così si può fare politica”. Falso, falsissimo, come proprio le sardine hanno dimostrato. Quel cambio di vocabolario, quella nuova gestualità, quella rinuncia a ogni prova di forza marziale, sono state altrettante utilissime azioni politiche. Per questo, costituire uno stato d’animo, prima e più che un movimento collettivo, non è una dichiarazione di impotenza né l’accettazione di uno stato di minorità. È, piuttosto, l’espressione di quel “corpo intermedio” che rappresenta un giacimento prezioso di energie morali. Le sole, cioè, che possono rivitalizzare la politica senza sostituirsi a essa.