Fabrizio Peronaci per il “Corriere della Sera - Edizione Roma”, 16 dicembre 2019
NON FACCIAMO PECI - PARLA LA FIGLIA DI ROBERTO PECI, UCCISO NEL 1981 DALLE BR PER VENDETTA SUL FRATELLO, BRIGATISTA PENTITO: “GIOVANNI SENZANI, CONDANNATO ALL'ERGASTOLO, E’ TORNATO LIBERO NEL 2010. VERSO DI LUI PROVO COMPLETA INDIFFERENZA. IL MIO ODIO È INUTILE. AVEVA 40 ANNI, NON ERA UN RAGAZZINO, COME MOLTI DELLA BANDA. ERA UN LUCIDO CALCOLATORE: PARLAVA DELLA MORTE DI MIO PADRE COME DI UN TRIBUTO ALLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO. E SU MIO ZIO...” - VIDEO -
«Per tanto tempo mi sono vergognata del mio cognome. Poi ho deciso di mettermi in gioco, di affrontare il passato per guardare al futuro mio e della mia famiglia, del mio compagno, degli amici più autentici...» Si chiama Roberta Peci e oggi è il suo compleanno. Ma, di sé, vuole parlare il meno possibile. Altro non desidera che tornare nell'ombra. Ama la fotografia, il cinema. La differenza - dal nome e cognome di suo padre - la fa solo una vocale.
Quel giorno lei non c' era: era nella pancia di sua mamma. Correva l' anno 1981. Tempo di sequestri regolarmente conclusi nel sangue, di omicidi in nome del proletariato e di truci vendette. Erano le Brigate rosse dell'ultima fase, quelle del dopo-Moro e di Giovanni Senzani, criminologo e ricercatore universitario, teorico del Partito della guerriglia. Br ormai disgregate, rantolanti.
La mattina del 3 agosto, nelle redazioni svuotate dalle ferie, arriva la notizia di un delitto alla periferia di Roma, in una casupola vicino l'ippodromo delle Capannelle. Luogo squallido, frequentato da prostitute. I cronisti scopriranno che i materassi buttati a terra venivano usati dalla «Secca» e dalla «Panzona» per soddisfare i clienti. Scena agghiacciante.
Il corpo di Roberto Peci, antennista marchigiano venticinquenne, fratello di Patrizio, il primo pentito brigatista, viene fatto trovare supino, ammanettato, dilaniato da una pioggia di proiettili alla testa, al petto, alle braccia. Si conclude così un sequestro durato 55 giorni, lo stesso tempo della prigionia di Aldo Moro. Su un cartone la scritta: «Morte ai traditori». Assassinato dopo un processo-farsa, del quale era stato diffuso il video. Così - rendendo la nipotina orfana prima ancora di nascere - la scelta di Patrizio Peci di collaborare con lo Stato e denunciare i suoi compagni è vendicata.
Roberta, auguri. Mamma Antonietta quel tragico giorno d'estate era incinta, lei nacque il 16 dicembre 1981. L'omicidio di papà nella storia italiana resterà un evento politico-criminale inaudito, mentre per voi è stato lancinante dolore, senso dell'assenza. Che babbo sarebbe stato, Roberto? «Semplicemente un padre. Può sembrare una risposta lapidaria, ma per chi non ha avuto mai la possibilità di comprendere il significato della figura paterna, vuol dire tutto. Ora, finalmente, non ho più paura di confrontarmi con quel passato. Le cose che ho vissuto hanno fatto di me la donna che sono adesso».
Bambina, adolescente, ragazza: che vita è stata senza di lui? «Una vita colma di domande. Avevo 6 o 7 anni quando, a scuola, appresi per caso che mio padre non era morto, per così dire, in modo normale. Di malattia o incidente. Poi, con la guida di mia madre, ho voluto sapere, capire».
E cosa ha scoperto? «L'unica colpa di mio padre, un ragazzo di 25 anni, fu avere un fratello terrorista pentito. Era un bravo calciatore, avrebbe potuto anche sfondare nello sport. Poi tentò di entrare nei carabinieri e fu respinto per la fama che già aveva mio zio. Si mise a lavorare come operaio. Amava mia madre: con lei era felice anche se vivevano in un garage. Non mi piace stare sotto i riflettori, ma a un certo punto ho dovuto uscire allo scoperto per far conoscere la verità».
Il segreto è non pensarci o rielaborare il lutto attraverso la passione civile? «La fine di papà è un pensiero costante nella mia vita. Una forma di impegno o militanza non può dare pace alla mia ricerca. Ciò che conta è la presa di coscienza che ho elaborato da sempre e mi ha definita come persona».
Giovanni Senzani, condannato all'ergastolo per il delitto Peci, tornò definitivamente libero nel 2010. Frustrazione, rabbia? «Verso Senzani provo completa indifferenza. Il mio odio è inutile, farebbe male solo a me. Aveva 40 anni in quel momento, non era un ragazzino, come molti della banda che aveva messo su per rapire e uccidere Roberto. Era un lucido calcolatore e ciò si evince bene dagli atti del processo. Parlava della morte di mio padre come di un tributo alla società dello spettacolo. Una persona così, dopo aver passato gran parte della vita in carcere, deve per forza aver fatto delle considerazioni su tutto ciò, e non credo lo aiutino a guardarsi allo specchio la mattina. Senzani è libero, ha scontato la pena, ma dovrà convivere con quel che ha fatto. La coscienza è meno indulgente della legge umana».
Desidera incontrarlo? «No, un tempo avrei voluto. Sono andata a cercarlo a Firenze. Ora non ne sento più il bisogno, il tempo ha parlato per lui».
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, si è dimostrato affettuoso con lei. In rete (tratto dal documentario «La via di mio padre») circola un vostro colloquio. Esistono le Br buone, delle origini, e quelle cattive della deriva armata, con la bava alla bocca? «A mio parere non esistono Brigate rosse buone, neanche contestualizzando gli avvenimenti di quel periodo storico che ha caratterizzato il nostro Paese».
Walter Veltroni le è stato vicino. Nel libro «L'inizio del buio» ha legato delitto Peci e morte di Alfredino Rampi. Erano gli stessi giorni del 1981: l' uso-abuso delle telecamere mutò il nostro modo di vedere. Che opinione s'è fatta dei mass media? «L'utilizzo che ne fece Senzani è stato finalizzato ai suoi scopi brutali e inumani. Io la imposterei così: i mass media sono una componente fondamentale della società in cui viviamo. Senzani anticipò di almeno vent' anni le tecniche del terrorismo di oggi, ma le strategie comunicative non bastano. Le Br decimate dalle rivelazioni dei pentiti ricevettero il colpo di grazia quando la gente capì che non erano paladini del proletariato: chi vuole cambiare il mondo non può esser capace di simili nefandezze. Se la storia di mio padre fosse stata spiegata meglio, altri terroristi avrebbero evitato di strumentalizzare i propri ostaggi».
I film-denuncia sulla vicenda Peci sono stati però decisivi, hanno portato anche a dedicargli una strada. «Il regista Luigi Maria Perotti ha raccontato l'accaduto con trasparenza e senso critico. Siamo diventati amici fraterni. Dopo l' uscita de L'Infame e suo fratello e de La via di mio padre la mia vita non è stata più la stessa. Sono stata sul luogo dove fu ucciso. Ho fatto cose molto dolorose per raccontarne la storia. Lui, il regista, ne era consapevole e mi ha aiutata. È stato un passaggio straziante, ma sentivo di doverlo fare. Ora a San Benedetto del Tronto la strada dove mio papà fu rapito si chiama via Roberto Peci. Un risultato bellissimo, commovente».
Suo zio Patrizio, uscito presto dal carcere, si è rifatto una vita sotto falsa identità. In fondo fu lui la causa dell' omicidio. Che sentimenti prova? «La stessa indifferenza che ho per Giovanni Senzani. Non ho interesse ad avere sue notizie, né a incontrarlo».
Ultima domanda, Roberta. Che effetto le fa chiamarsi come suo padre? «Mi sento fortunata nel portare il suo nome. Grazie mamma».