Libero, 16 dicembre 2019
I capolavori nati dietro le sbarre
Senza prigione saremmo stati uomini meno liberi intellettualmente. Platone trasse dall’esperienza in carcere di Socrate lo spunto per scrivere di filosofia, Cervantes concepì dietro le sbarre il Don Chisciotte, e Silvio Pellico e Antonio Gramsci, con Le mie prigioni e Lettere dal carcere, composero le loro opere più mirabili; e ancora, Oscar Wilde affermò la sua libertà, anche di costumi sessuali, proprio da recluso con il De profundis, Goliarda Sapienza raggiunse il vertice della sua formazione frequentando quella che lei chiamava “l’università di Rebibbia”, e Iosif Brodskij fece della prigione sovietica un punto di osservazione sulle miserie umane. Un fetta importante di letteratura e storia del pensiero mondiale è sorta dentro il gabbio, quasi che la creatività artistica riesca a esprimersi a pieno laddove il corpo è imprigionato; e quasi che l’abitudine a scrivere diventi qua una sana dipendenza, una specie di “Fine Penna Mai”, un dono più che una condanna, con cui provare a riscattare l’ignobile sorte di recluso. Tale è diventata anche per Salvatore Torre, ergastolano siciliano, da trent’anni in carcere dove, dopo una gioventù da boss della malavita, ha intrapreso un percorso di rinascita, dedicandosi alla lettura, facendosi esperto di letteratura russa, e infine consacrandosi alla scrittura da cui ha tratto riconoscimenti importanti, dall’inserimento tra i finalisti del Premio Goliarda Sapienza alla vittoria nel 2018 del Premio Vatican News. PROTAGONISTA E SPETTATORE Nella sua ultima fatica letteraria, Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri (Libreria Editrice Vaticana, pp. 174, euro 10, a cura di Antonella Bolelli Ferrera, con introduzione di Mons. Dario E. Viganò), Torre racconta il proprio passato criminale e il proprio presente da condannato e insieme raccoglie tante microstorie di altri carcerati, compiendo un viaggio nella loro anima e un’opera di revisione di se stesso. L’autore si muove col metodo che in antropologia è definito “osservazione partecipante”: è protagonista ma allo stesso tempo spettatore. E, da quel punto di vista privilegiato, mette in luce l’orrore del fine pena mai, quella condanna eterna che priva la prigione di qualsiasi funzione rieducativa. «Qui c’è solo espiazione», nota la Bolelli Ferrera, «e viene meno il principio costituzionale per cui il carcere dovrebbe permettere di rivedere la propria posizione e poter tornare in società». In quest’ambito affiora anche il tema dell’ergastolo ostativo, per cui il carcerato non può neppure godere di permessi premio o minime riduzioni di pena. Si crea così una disparità tra delinquenti di serie A e delinquenti di serie B, come l’ha chiamata Vittorio Feltri, cioè tra ergastolani cui sono concessi benefici ed ergastolani costretti a marcire in carcere. «La concessione di permessi», fa notare la Bolelli Ferrera, «spesso prescinde dalla buona condotta del carcerato. Torre ad esempio, che oggi è una persona trasformata rispetto a un tempo, è ancora all’ergastolo ostativo. E quindi non potrà godere di permessi neppure per presentare il suo libro fuori delle carceri». Intesa così, la pena diventa induzione all’abbrutimento e all’incattivimento, in un legame stretto che unisce la cattività alla crescita della cattiveria: anziché consentirti il ravvedimento, il carcere finisce per renderti peggiore. Miracolosamente però non è stato così per Torre. «È una persona che si è addolcita grazie alla cultura», fa notare la Bolelli Ferrera. «Lui veniva da un retroterra culturale pressoché nullo, era un semi-analfabeta con la licenza di terza media. Leggere tantissimo gli ha consentito di ragionare diversamente e di diventare un’altra persona, accorgendosi di quanto fosse sbagliata la sua vita». Grazie ai libri e alla scrittura ha potuto fare i conti con l’uomo che era prima: «Quando ci ripensa», avverte la curatrice, «si chiede come abbia potuto essere quella persona lì, e si sente come sdoppiato». Ma non solo: grazie alla letteratura oggi lui può rifarsi una vita, anzi più vite: «La scrittura», dice la Bolelli Ferrera, «aiuta a vivere altri mondi con la fantasia, a immaginare luoghi che non si possono vedere, e a ripescare scene dalla memoria. Scrivere ti fa evadere con la mente: per dirla con Erri De Luca, è l’unica forma di evasione legale». Il libro di Torre però non è solo un esercizio catartico o una testimonianza di riscatto umano, ma ha anche un alto valore letterario per la qualità della scrittura e i temi filosofici affrontati. L’autore si interroga sul peso del determinismo e del libero arbitrio nella sorte di un delinquente (ha contato di più il contesto criminale in cui è cresciuto o le sue scelte personali?), racconta l’assenza di spazio dietro le sbarre e l’oppressione del tempo, ossia la dilatazione delle ore che si fanno infinite e scorrono inutili, fa sentire al lettore i rumori e i silenzi del carcere, parimenti insopportabili, e gli fa respirare gli odori, il puzzo di merda e piscio e l’afrore della promiscuità e del sovraffollamento. IL DIVARIO NORD-SUD E poi analizza, con sguardo lucido, la disparità tra le carceri del Nord e quelle del Sud, a conferma di una questione meridionale che si riflette nel sistema penitenziario; evidenzia la quasi impossibile convivenza multietnica in prigione, dove le «dinamiche conflittuali sono più accentuate, perché culture e usanze differenti convivono forzatamente in uno spazio angusto di degrado e miseria»; e mette a nudo la spietata organizzazione burocratica delle prigioni, che accresce la disumanità del luogo. Testimonia casi di violenze, di segregazione e sopraffazione, episodi di suicidio e autolesionismo, manifestazione di una volontà di distruzione che si fa cupio dissolvi, ma dipinge anche bozzetti di profonda umanità, racconta nostalgie e ansie di libertà, attese di redenzione e speranze di uscire a riveder le stelle. In questo emerge la consapevolezza che la persona non coincide mai del tutto col proprio gesto, per quanto efferato; ma allo stesso tempo, lungi da ogni tentativo di auto-assoluzione, c’è una presa in carico delle proprie responsabilità, quasi che Torre sia riuscito dove pochi carcerati riescono, ossia ricordare che il fine pena mai è soprattutto quello dei parenti delle vittime: «I detenuti di solito», avverte la Bolelli Ferrera, «puntano solo al proprio riscatto personale. È difficile per loro chiedere perdono, nominare le vittime o chiedere scusa. Qualcuno però ce la fa…». Ecco che allora questo spaccato di un mondo marginale e violento, dove l’uomo pare ridotto alla sua animalità, apre squarci lirici e inattesi su individui restituiti alla loro essenza più autentica. Perché, come recita uno dei brani raccolti in Atonement, «il carcere elimina le maschere, gli uomini appaiono come sono». Nudi e forse più veri.