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 2019  dicembre 16 Lunedì calendario

120 anni di Milan in 12 ritratti


Kilpin
L’uomo che fondò il Milan e vinse i primi tre scudetti veniva da una squadra di Nottingham che si chiamava Giuseppe Garibaldi. Era stata fondata nel 1883 pochi mesi dopo la morte dell’eroe e aveva le maglie rosse come le camicie dei garibaldini. Si chiamava Herbert Kilpin, giocava all’ala destra. Kilpin a modo suo è stato per il Milan importante come Berlusconi. Inventò una squadra ma anche una dimensione. Giocò per sette anni a Torino dove si occupava di industria tessile per conto di Brosio, fondatore dell’Internazionale Torino e autore del primo gol di cui si ha notizia scritta (Gazzetta) nella storia del calcio. Poi quando aveva ormai 28 anni, si trasferì a Milano per costruire una squadra che lo riscattasse dalle tante sconfitte subite contro il Genoa. E ci riuscì. Non giocò né cento né duecento partite nel Milan, erano altri tempi. Senza arbitri, senza traverse, senza spogliatoi, i vestiti si mettevano tutti nella stessa cesta. Le partite di Kilpin furono in tutto 23 in nove anni. Inventò lui sia le maglie rossonere che il soprannome Diavoli. Voleva colori audaci, termini forti come segni sulla pelle che spaventassero gli avversari. Kilpin fu giocatore, fondatore, allenatore. Era così innamorato del calcio che il giorno in cui si sposò lasciò la fidanzata sull’altare, Maria Capua, una ragazza di Lodi, dovendo andare a giocare contro il Genoa. In quella partita si ruppe il naso, tornò a casa che l’ormai giovane moglie nemmeno lo riconobbe. C’era ancora Kilpin quando nel 1908 il Milan decise di non iscriversi al campionato. La Federazione aveva deciso di tener fuori gli stranieri, il Milan rispose mettendo nell’elenco dei convocati, certi Root, Fashion, Whites, Hall e Wool. Altro non erano che la traduzione inglese di giocatori italiani che si chiamavano Radice, Moda, Bianchi, Sala, Lana. Le polemiche durarono a lungo e contribuirono a causare una scissione. Così, nel 1908, Kilpin assistè alla nascita dell’Internazionale.

Nordhal

Alla fine degli anni 40 il Milan si riempì improvvisamente di giocatori svedesi. Arrivarono Nordahl, Liedholm e Gren, molti altri svedesi andarono in altre squadre italiane. Credo ci fosse un perché abbastanza macabro. La Svezia era stato uno dei pochissimi paesi risparmiati dalla guerra, la sua gioventù era rimasta intatta in mezzo agli oltre 40 milioni di morti. Quella prima generazione del dopoguerra è stata per risultati la migliore della storia svedese. Si concluse nel ’58 con la finale per il Mondiale, vinse il Brasile di Pelè sulla Svezia di Liedholm e Nordahl. Quando arrivò a Milano nel gennaio del ’49 Nordahl scese dal treno in maniche corte e camicia a fiori di tipo hawaiano. Intorno c’era la nebbia su una neve che era diventata ghiaccio sporco. Gli venne subito la febbre, dovette saltare la sua prima partita nel paese del sole. Era alto 180 centimetri, pesava 90 chili. Era un vero toro scatenato con lo scatto di un velocista. Infermabile. Con lui e Liedholm il Milan tornò a vincere dopo 44 anni, cioè dal 1907, l’inizio della storia. Tanti, tanti gol in otto anni, da un minimo di 23 a stagione a un massimo di 35. Erano epoche diverse, si avvicinava il calcio all’italiana, segnare era ancora normale. Ma Nordahl e Liedholm ero casi eccezionali. Come centrocampista Liedholm chiuse nel Milan a 81 reti. Era la differenza.

Altafini

Ha avuto molte vite ma come Rivera è alla base della leggenda. 204 presenze in campionato, 120 reti, tante. Altafini ne ha fatti 14 in un solo anno di Coppa dei Campioni, che il Milan infatti vinse. Era il terminale del gioco, l’ultima idea di Rivera. Non un vero centravanti, quasi un fantasista allungato, un artista pigro che si innamorava di se stesso quando scattava verso la porta. È stato forse il miglior centravanti della Nazionale brasiliana insieme a Tostao. In Italia lo portò Gipo Viani che lo aveva visto giocare col Brasile a Firenze. Altafini amava la vita, non aveva orari né attenzioni. È stato l’unico brasiliano venuto in Italia a farsi fare il contratto in cruzeiro anziché in lire. È stata una lenta, continua, rimessa. Viani lo faceva pedinare, José segnava tanto ma correva poco. Una notte lo trovò in un night, Altafini si era nascosto sotto un tavolo. Lo guardò con disprezzo e gli gridò «Coniglio» in dialetto veneto. È stato per molti anni il suo soprannome. Ma sono state le sue 120 reti, 161 con le coppe, a fare del Milan una squadra del mondo.
Rivera

Fu il suo apparire a cambiare il Milan. I tempi erano maturi, Milano era ormai la realtà più evidente del paese, ma fu Rivera il suo strumento per diventare finalmente unica. Rivera giocava come nessuno aveva mai visto. Diverso da Pelè, meno insistente, meno attaccante, più leggero. Diverso da Sivori, meno cattivo, più elegante. Così discreto da sembrare fragile. Anche se Brera mi disse che aveva sbagliato su di lui, era stato male interpretato. L’idea dell’«abatino» era di un frate mentre passeggia in preghiera, non di un atleta mancato. Quel cinismo creativo Rivera lo ha mantenuto fino alla fine, era lui stesso, che infatti ha preso il patentino da allenatore adesso a 76 anni. Uno snob del calcio, un uomo coerente. E un giocatore inaudito. Il calcio del Milan si divide in prima di Rivera e dopo Rivera. Qualunque sia la discussione.
Prati

Lo volle Rocco quando era un ragazzo di vent’anni in prestito al Savona. Aveva segnato 15 reti in una squadra che era retrocessa in C, ne segnò altrettante al primo anno nel Milan vincendo la classifica dei cannonieri. Era forte e veloce, gran tiro e un’andatura un po’ sbilenca che lo rendeva poco riconoscibile nello scatto. Faceva reparto con Hamrin e Sormani, più Rivera alle spalle. Una grande squadra che infatti vinse molto. È stato chiuso in Nazionale da Riva, anche se Prati era un destro e Riva mancino. Oggi giocherebbero senz’altro insieme. Nel Milan ha vinto tutto e segnato 102 reti in totale su 209 partite. Media da grande attaccante.
Baresi

È stato un giocatore mai scoperto fino in fondo perché aveva troppo. Giocava a calcio come un centrocampista ma sapeva colpire come un fabbro. Non costruiva gioco, lo vedeva. Dovevi solo assecondarlo. Credo sia stato il difensore centrale più completo al mondo, aveva tecnica e cuore, sentimento. Nel Mondiale del ’94 tutti ci ricordiamo di quando sbagliò in finale il suo calcio di rigore, ma dimentichiamo che pochi minuti prima si era sdraiato sul campo in balia dei crampi. Nessuno avrebbe battuto quel calcio di rigore. Lui se ne prese la responsabilità per amore di Sacchi.
Van Basten

È stato bellissimo e fragile, un centravanti con capacità tecniche sconosciute. Sacchi non riusciva a sopportarlo. Sacchi è stato una fantastica ossessione per tutti quelli che non rientravano nei suoi canoni. Van Basten ha cambiato il suo ruolo, lo ha reso aggraziato, quasi femminile. Era questa attesa, la gestione della freddezza, a mandare fuori tempo gli altri e a cominciare le sue costruzioni. Van Basten nel Milan ha reso naturale vincere. La sua interpretazione del centravanti è stata così completa e diversa da aver travolto molte delle vecchie idee sul gioco di attacco. Finita l’epoca dei grandi e dei grossi, dei non pensanti. Un’interpretazione che non c’era mai stata e non è ancora tornata. Il suo riassunto nel Milan è in un gol al Real al Bernabeu, primavera dell’89. Un colpo di testa a pelo d’erba da quasi venti metri. Ci vuole tutto: coordinazione, quindi equilibrio, poi forza, tempo, e una spietata allegria di stupirsi.
Maldini

Forse è stato il miglior calciatore italiano del dopoguerra insieme a Valentino Mazzola. Una diversità perenne per il Milan e per la Nazionale, un numero 10 che partiva dai limiti dell’area. Era un difensore per principio, non per scopo. Aveva tutto il campo dentro e una capacità di dominarlo che hanno solo i fuoriclasse. Il Milan di Berlusconi deve moltissimo a lui, a Baresi, a Costacurta, Tassotti, tutti giocatori diversi che insieme facevano un reparto mai esistito per fantasia e durezza difensiva. Maldini è il simbolo del Milan oggi e un simbolo del calcio nel mondo. La differenza che ha fatto nel Milan è vicina a quella che hanno fatto Messi e Ronaldo nel loro ruolo.
Gullit

Quando arrivò a Milano sembrava un dio greco, oggi si direbbe un supereroe della Marvel. Era chiaro che non gli era vietato niente, aveva la vita sul palmo della mano. È stato il primo numero 10 di forza, non solo classe. Trasformò il Milan e ne fu trasformato. Lo voleva la Juventus, ma l’Avvocato aveva la Philips, la società proprietaria del Psv, nel consiglio di amministrazione Fiat. «Non potevo» mi disse in una delle telefonate mattutine (non alle sei, alle nove: ero una terza scelta).
Pirlo

È stato l’uomo che nessuno sembrava davvero volere nonostante sia sempre stata chiara la sua differenza. L’Inter, la prima squadra, lo scambiò con il Milan. Il Milan lo mandò un po’ in giro poi lo tenne dieci anni per regalarlo infine alla Juve. Tutti sappiamo com’è andata. È diventato con gli anni il simbolo di un ruolo nuovo, il regista-fantasista, un distributore elettrico di gioco, mai banale, una diversità assoluta con qualunque interpretazione precedente. Il gioco alla Pirlo, quello provato da Ancelotti nel Milan, è ancora oggi un’ambizione comune e non avvicinabile.
Shevchenko

È stato Pallone d’oro prima della valanga di Messi e Ronaldo, questo racconta molto di lui. È stato un vero grande attaccante della sua epoca, con la velocità che serviva allora, abbinata a una forza fisica molto moderna. Quando partiva in slalom, se acquistava un po’ di velocità diventava infermabile. Era un attaccante puro, non un centravanti. Gli piaceva partire dai lati per prendere di sorpresa i difensori al centro. Aveva tiro ma anche senso rapido nell’area del portiere. I suoi gol sono stati tanti e fondamentali per il Milan: 127 in 226 partite. La sua presenza dava la cifra tecnica di quanto l’intero Milan portava sul campo.
Kakà

È il più giovane in questa lista di ricordi, compirà 38 anni ad aprile. È stato anche l’ultimo vero campione del Milan, l’ultimo a vincere scudetto, Champions e titolo mondiale per club. Aveva un gioco elegante, direi quasi educato, un gioco da buona famiglia com’era la sua, padre ingegnere e madre insegnante di matematica. La caratteristica che lo ha reso campione è stata la facilità con cui correva palla al piede. Entrava nel campo con eleganza e forza, molto difficile prenderlo quando aveva iniziato lo scatto. Vedeva calcio offensivo e segnava con facilità. Non erano mai gol semplici. Kakà è stato forse l’ultimo grande fantasista brasiliano, meno sorprendente di Neymar, ma più giocatore, più dentro al campo. Nel Milan è stato lo spartiacque fra una realtà e l’altra. In attesa di quella nuova.