Corriere della Sera, 16 dicembre 2019
Sul tetto della basilica di san Marco
Sul tetto della Basilica di San Marco ci sono, nascoste, cinque navi rovesciate. Nessuno dei milioni di turisti che ogni anno visitano Venezia, riesce a vederle tra statue e pinnacoli che sovrastano la chiesa.
Valter Pirolo invece ne conosce ogni corona, chiodo, staffa, che le compone. È il carpentiere del legno della Procuratoria di San Marco, la fabbriceria della cattedrale. La manutenzione delle cupole lignee sul tetto è affidata a lui, erede degli «arsenalotti» della Serenissima, la corporazione più privilegiata della Repubblica perché fabbricava, all’Arsenale, le galee su cui Venezia fondava la sua potenza.
Pirolo non costruisce navi, ma da 35 anni vigila sul tetto e le strutture che compongono le cinque cupole, realizzate con la tecnica della carpenteria navale. «A me, come a tutti – racconta – il primo giorno di lavoro hanno insegnato che siamo qui per far restare nel tempo ciò che abbiamo trovato. Ed è quello che sono orgoglioso di fare assieme agli altri quindici operai della Basilica: tuteliamo per il mondo la bellezza di questa chiesa». Soprattutto oggi che l’acqua alta eccezionale del 12 novembre ha provocato 3 milioni di danni alle colonne e ai mosaici e un altro milione al tetto per le raffiche violente di vento. Le cupole non sono vere cupole, ma macchine lignee che sormontano le piccole calotte murarie ribassate della chiesa costruita (la terza) nell’XI secolo. Quando nel Duecento palazzo Ducale venne innalzato, chi entrava in città dal mare non poteva più vederle. «Quindi vennero realizzate queste macchine straordinarie – racconta l’architetto Mario Piana, proto di San Marco, il direttore della Procuratoria come lo furono Jacopo Sansovino e Baldassare Longhena – per traslare in altezza le cupole e farle vedere da lontano». I veneziani, che in Oriente erano di casa, probabilmente si ispirarono alla forma della moschea al-Aqsa a Gerusalemme, ma la tecnica costruttiva era una novità assoluta: ai carpentieri dell’Arsenale non mancavano certo inventiva e abilità.
Ogni mattina alle 8, prima che arrivino i 15 mila visitatori quotidiani della chiesa, Pirolo s’infila in una porta nascosta nella parete del museo e comincia a salire scale sempre più strette, fino a uscire sulla distesa di lastre di piombo, alcune migliaia, che coprono il tetto della Basilica. Da lì si vedono il mare oltre l’isola del Lido e le Dolomiti dietro Murano e decine di cupole ispirate a San Marco. «Essere là in alto è una sensazione che non si può descrivere – sospira Pirolo – si respira tutto il valore artistico e simbolico della Basilica e di Venezia».
D’inverno prepara le travature e gli elementi lignei da sostituire, da marzo a ottobre vive sul tetto, tranne quando la temperatura, d’estate, arriva anche a 45 gradi. «Controlliamo tutte le strutture perché se filtra acqua può arrivare ai mattoni sotto ai quali ci sono i mosaici e danneggiarli; aggiustiamo il piombo con saldature a stagno e lo sagomiamo con strumenti in legno che facciamo noi, dobbiamo stare attenti perché ci sono fodere che hanno 300-400 anni e anche una fessura minima può far marcire un’intera trave». L’acqua è il nemico della Basilica, che sia l’alta marea, la pioggia o la condensa estiva. Come lo è il fuoco, contro il quale sono stati disseminati 400 sensori. «Dopo il rogo della Fenice – racconta Pierpaolo Campostrini, uno dei procuratori di San Marco – abbiamo studiato un impianto che, in caso di allarme, produce una nebbia di particelle ad altissima pressione che toglie ossigeno al fuoco, con pochissima acqua». «Ma in qualche sera di settembre, al tramonto, il piombo diventa così rosso che sembra davvero un incendio», sorride Pirolo. C’è un detto tra gli operai della Procuratoria: se porti qualcuno sul tetto della Basilica sarà tuo amico per sempre.