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 2019  dicembre 16 Lunedì calendario

I fallimenti costano allo Stato 105,7 miliardi di euro

È un numero talmente enorme che si fa fatica a raffigurarlo: 105,7 miliardi di euro. Sono i crediti che il Fisco non è ancora riuscito ad incassare dalle società fallite o in amministrazioni straordinarie ancora in corso. Parliamo di imposte sui redditi, Iva, ritenute d’acconto, contributi previdenziali, tasse locali ecc. I dati dell’Agenzia delle Entrate sono impietosi. Su 161,7 miliardi di euro di domande di ammissione al passivo, finora il Fisco ha recuperato appena 2,6 miliardi, ovvero l’1,6%. Praticamente niente.
«Traccheggiare» e «svuotare»
Sono cifre che riguardano un numero molto grande di imprese: ogni anno ne saltano circa 13-15 mila. Fra queste ci sono quelle che nascondono la crisi spostando in avanti l’insolvenza sperando di farcela. In nove casi su dieci il dissesto si aggrava. Secondo l’esperienza dei magistrati fallimentari sono le situazioni meno gravi, perché l’intento non è di frodare i creditori, e inoltre non rappresentano la maggior parte dei crediti fiscali. C’è poi una seconda tipologia di imprese che vanno male: sono quelle nelle quali gli imprenditori o gli amministratori allungano i tempi per svuotare l’azienda di quello che è rimasto. È un fenomeno più grave perché spesso non versano l’Iva, vendono immobili e macchinari utilizzando prestanome per nascondere le responsabilità. Si arriva così alla bancarotta per distrazione, che si lascia dietro crediti a carico dei fornitori, delle banche e del Fisco.
Le imprese che nascono per fallire
Negli ultimi anni però si sta ingigantendo il dissesto di impresa di «terzo tipo», quello più destabilizzante per l’economia. «Sono società costituite apposta per durare uno-due anni, pianificando il non pagamento di imposte e contributi previdenziali», spiega Roberto Fontana, sostituto procuratore nel dipartimento Crisi d’impresa della Procura di Milano. Si tratta in particolare di cooperative o piccole srl, che si aggiudicano a basso costo contratti di appalto o subappalto e che spariscono in poco tempo. È un fenomeno diffuso in alcuni settori produttivi, nelle attività di servizi, ma soprattutto nella logistica. Lo schema è sempre lo stesso: il committente, spesso un soggetto internazionale, affida gran parte della gestione delle merci a società esterne, che a loro volta si affidano a piccole società, a cooperative, spesso con l’interposizione fittizia di un consorzio. Queste società di solito non hanno mezzi propri, perché glieli mette a disposizione il committente. Di fatto, gestiscono solo la manodopera, hanno pochissimo capitale, ma assumono molti dipendenti che operano anche in violazione delle norme sul lavoro. Il loro scopo è quello di portare a casa appalti sottocosto. Come fanno a stare in piedi? Fin dal primo giorno di attività non versano l’Iva e non pagano le ritenute d’acconto e i contributi previdenziali ai dipendenti. Dopo uno-due anni i lavoratori – spesso extracomunitari – vengono licenziati e riassunti da una nuova coop, gestita dagli stessi amministratori (a loro volta, spesso, dei prestanome), che lavora per lo stesso committente. E ricomincia la giostra.
Il caso di Ceva Logistics
Un caso emblematico è quello di Ceva Logistics. Lo scorso maggio la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto un’inedita «amministrazione giudiziaria» di uno degli stabilimenti di «Ceva Logistics Italia srl», divisione italiana del colosso quotato a Zurigo e con 7 miliardi di fatturato in 170 Paesi per 58.000 impiegati. Nel mirino i rapporti con Premium Net, un consorzio di cooperative che operava a Pavia: gestiva la distribuzione dei libri per le principali case editrici. Solo che dietro al consorzio, scrivono i giudici, si nascondeva un «sistematico sfruttamento di lavoratori, con straordinari imposti sotto minaccia di licenziamento, retribuzione difforme dalle ore davvero lavorate (anche 11), e omesso versamento di contributi». Il committente Ceva è coinvolto perché secondo i giudici avrebbe dovuto sapere che i prezzi praticati erano troppo bassi per operare nella legalità. Allarmi simili sono stati sollevati di recente sull’Ortomercato di Milano, e anche altre società della logistica oggi sono indagate.
I 40 miliardi di debiti a Milano
Il risultato è la distruzione del sistema della concorrenza, perché falsando il mercato vengono espulse le imprese che rispettano le regole. A terra restano lavoratori non pagati e domina il caporalato, mentre sulle spalle dei cittadini gravano i miliardi di euro sottratti all’erario e alla previdenza. È un sistema che trascina verso il basso stipendi e diritti dei lavoratori, e che tutti noi contribuiamo a tenere in piedi quando acquistiamo online senza pagare la spedizione. Pensando pure di fare un buon affare. Per dare un’idea dell’ampiezza: nella logistica il fatturato nazionale è di 32 miliardi di euro, il 40% è concentrato in Lombardia. Mentre nella sola area di Milano, per quel che riguarda i debiti di tutte le società fallite verso enti previdenziali, dipendenti, fornitori, banche, si è passati dai 25 miliardi del 2015 agli oltre 40 miliardi del 2018.
L’80% dei fallimenti è doloso
La risposta dello Stato è inadeguata e inefficiente, perché arriva anni dopo con l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate e poi con la procedura esecutiva. Ma a quel punto attivi da aggredire non ce ne sono più e diventa anche difficile individuare chi sono i veri responsabili. «Invece queste società bisogna farle fallire subito, per contenere i danni e perseguire efficacemente i colpevoli. Questo perché dei 105 miliardi che mancano, l’80% derivano proprio dai dissesti del secondo e terzo tipo» dichiara il sostituto procuratore Fontana. Mentre qualche settimana fa il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, ad un convegno a porte chiuse ha spiegato la folle evasione dell’Iva con un paradosso: «È come se ci fosse stato un patto tra imprese e Stato che diceva: anziché in banca, finanziatevi non versando l’Iva, che poi è una tassa europea. Sono 35 miliardi ogni anno, e una grossa fetta solo a Milano». Su questi numeri incidono anche le cartiere: società fantasma che nascono solo per fare fatture false e frodare l’Iva. Per contrastare il fenomeno in Procura si utilizza molto la norma che punisce il fallimento «come conseguenza di operazioni dolose (223 comma 2 della Legge Fallimentare)». Una norma che invece non è molto applicata nelle altre Procure italiane. Anche qui, insomma, un modello Milano si impone.
La risposta dello Stato
A livello nazionale invece è stato varato da poco il nuovo codice delle crisi d’impresa. Da gennaio tutte le società con almeno 4 milioni di fatturato devono dotarsi di un sindaco unico che deve sollecitare l’impresa a prendere tutte le iniziative necessarie a salvarsi, a cominciare da un accordo stragiudiziale con i creditori. Ma le norme più efficaci saranno in vigore solo dal 15 agosto 2020: sono quelle relative agli «strumenti di allerta». Prevedono un intervento degli organismi di controllo non appena l’azienda dia i primi segni di squilibrio finanziario, patrimoniale o di cassa. La segnalazione potrà avvenire anche dall’Inps e dalla stessa Agenzia delle Entrate, che però è notoriamente sottorganico. Ci vorrà qualche anno per capire se il nuovo sistema servirà a contenere le truffe a danno del Fisco. Nel frattempo l’Erario continuerà ad accumulare crediti inesigibili, e il debito pubblico aumenterà.