Federico Fubini per il “Corriere della Sera”, 16 dicembre 2019
SE LONDRA, DOPO LA BREXIT, DIVENTA UN PARADISO FISCALE CHE SUCCEDE ALL’ITALIA? UN DISASTRO - GIÀ OGGI L’OLANDA CI SOTTRAE UN MILIARDO DI ENTRATE FISCALI, L’IRLANDA QUASI 3 E IL LUSSEMBURGO 1,5 - DI SICURO LA "CITY" È AMATA DA MOLTI DEI FINANZIATORI DI ORIGINE INDIANA, MALESE O CINESE DI HONG KONG E BORIS JOHNSON POTREBBE TRASFORMARLA IN UNA SPECIE DI SINGAPORE CON POCHE TASSE PER LE MULTINAZIONALI ESTERE, SCARSA TRASPARENZA, UNA DOSE DI SEGRETO BANCARIO E MOLTA ELASTICITÀ SULLE REGOLE… -
A settembre tre ricercatori delle Università di California a Berkeley e di Copenaghen, Gabriel Zucman, Thomas Tørsløv e Ludvig Wier, hanno pubblicato un lavoro rivoluzionario. Per la prima volta misurano in modo granulare fino a che punto i paradisi fiscali danneggiano i bilanci pubblici e i contribuenti delle principali economie. Non poteva esserci guida migliore ai rischi che la Brexit presenta per l' Italia e il resto dell' Unione europea, quando il vero negoziato entrerà nel vivo: non quello sull' uscita, attesa a fine gennaio, ma sull' accordo commerciale fra la Ue e la Gran Bretagna quando sarà fuori dal club.
Alcune grandezze danno la misura della posta in gioco. Secondo Zucman, Tørsløv e Wier, ogni anno le residenze fiscali sostanzialmente fittizie delle imprese in Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Malta e Cipro sottraggono all' erario italiano circa sei miliardi di euro. Un euro ogni cinque di entrate dall' imposta sugli utili delle società sparisce grazie ai trattamenti di favore offerti da questi Paesi alle aziende che trasferiscono contabilmente i loro profitti in quelle giurisdizioni.
I tre ricercatori calcolano che l'Olanda sottragga all' Italia circa un miliardo di entrate fiscali, l'Irlanda quasi tre e il Lussemburgo 1,5. Ed è ironico, ma forse non casuale dato che la migliore difesa è l' attacco, che proprio l'Aia e Dublino siano tra i più intransigenti sui conti pubblici di Roma. Tutto questo con la Brexit non avrebbe niente a che fare, non fosse che trasformare Londra in un paradiso fiscale e regolamentare che aspiri business dall' Europa è un' opzione che Boris Johnson ha nel cassetto.
Di sicuro è prediletta da molti dei finanziatori di origine indiana, malese o cinese di Hong Kong che hanno sostenuto la sua campagna. Non è un caso che cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) sia Sajid Javid, un ex trader di origine asiatica a lungo basato a Singapore per Deutsche Bank.
Proprio questa è una delle strade che Johnson può imboccare dopo Brexit: fare di Londra una Singapore sul Tamigi, con poche tasse per le multinazionali estere, scarsa trasparenza e una dose di segreto bancario e molta elasticità sulle regole. Per l' Italia e gli altri grandi produttori industriali d' Europa, sarebbe disastroso. Una Gran Bretagna di questo tipo sottrarrebbe ancora più gettito dei paradisi attuali, scaricando il costo fiscale sulle piccole imprese e i lavoratori dipendenti dell' Unione europea.
Del resto la Casa Bianca di Donald Trump non vede con sfavore questa opzione: minacciando sanzioni contro Parigi che vuole tassare le Big Tech, di fatto già oggi Trump offre protezione ai paradisi fiscali europei che permettono a Google o a Facebook di eludere per decine di miliardi. L' Italia, di fronte a questo rischio, ha uno strumento: in mancanza di garanzie, può impedire qualunque accordo per l' accesso della Gran Bretagna al mercato europeo. Questa volta non sarebbe da sola.