la Repubblica, 16 dicembre 2019
Cop25, ha vinto il carbone
Chi ha fatto fallire la Cop25? Su quali scogli si sono arenate le trattative, proseguite senza successo per due giorni e due noti, oltre il termine ufficiale della Conferenza di Madrid? L’ultima, drammatica riunione plenaria andata in scena ieri mattina, pur nel felpato linguaggio della diplomazia internazionale, ha mostrato chiaramente quali siano stati gli scontri e quali le forze in campo. Da una parte i grandi inquinatori e i Paesi dipendenti dalle fonti fossili: Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, Australia, Brasile, Giappone. Dall’altra i Paesi emergenti e più vulnerabili alle conseguenze del riscaldamento globale: le nazioni africane a rischio siccità, le isole del pacifico che fronteggiano l’innalzamento dei mari. In mezzo l’Unione Europea, che pur appartenendo al primo gruppo ha giocato di sponda con il secondo, e ha cercato di assumere, senza riuscirci, la leadership della Conferenza. Il risultato è stata una partita condotta simultaneamente su tre tavoli principali e in cui si sono moltiplicati i veti incrociati.
I nuovi target
Il primo tavolo, forse quello più importante, è relativo alla riduzione delle emissioni. Secondo gli Accordi di Parigi del 2015, entro il prossimo anno ogni nazione dovrà prendere impegni vincolanti per fare in modo che entro la fine del secolo il riscaldamento del Pianeta non superi gli 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale. Ai Grandi è stato chiesto di formalizzare già ora, senza attendere la Cop26 di Glasgow il prossimo novembre, il taglio alle emissioni. Ma soprattuto, visto l’aggravarsi dell’emergenza climatica confermato dagli ultimi dati scientifici, è stato chiesto loro di innalzare i rispettivi target oltre le promesse fatte fin qui. Arabia Saudita, Brasile, Australia e Stati Uniti si sono opposti preferendo la vaga formulazione espressa a Parigi: nel 2020 i target andranno “comunicati” o “aggiornati”. E però, almeno in questo caso, la forza numerica dei Piccoli, che per la prima volta sono usciti dal cono d’ombra della Cina, ha sortito un risultato. Nella dichiarazione finale si legge che le nazioni si impegnano a riconoscere “l’urgente necessità” di tagli alle emissioni di carbonio e che ci dovrà essere una “progressione” dei target. Ma nessun impegno concreto.
Gli aiuti ai Paesi vulnerabili
È un punto strettamente legato al precedente. E lo è stato anche nelle convulse trattative di Madrid. Se non si ridurranno drasticamente le emissioni sarà la catastrofe, ma non tutti pagheranno lo stesso prezzo. Se per esempio, come prevedono gli scienziati, nei prossimi 80 anni i mari dovessero innalzarsi di 4 metri le prime a sparire dalla faccia della Terra sarebbero centinaia di isole con le loro comunità. Stesso discorso per molti Paesi africani che già oggi devono affrontare ondate straordinarie di siccità. Chiedono dunque un aiuto economico ai Paesi ricchi, storicamente responsabili di avere emesso CO2 per secoli: 50 miliardi di dollari l’anno entro il 2022. Su questo punto si sono messi di traverso gli Usa di Donald Trump. Almeno a parole, più per una questione legale che per i soldi: non vogliamo che sia formalizzata la nostra responsabilità per eventuali catastrofi climatiche, è stata in sintesi la posizione statunitense, che ha fatto saltare l’accordo provocando il durissimo intervento del rappresentate di Tuvalu: «C’è una nazione che si è schierata contro queste misure pur avendo deciso di uscire dagli Accordi di Parigi», ha ricordato il diplomatico dell’isola del Pacifico. «Negare che ci siano Paesi che stanno già soffrendo per l’emergenza climatica si potrebbe persino configurare come un crimine contro l’umanità».
Il mercato del carbonio
Ma è stato sull’ormai famigerato articolo 6 degli Accordi di Parigi che si è consumato il vero psicodramma di questa Cop25. L’articolo prevede meccanismi di compravendita dei “crediti di carbonio” per aiutare i Paesi o le imprese che sforano con le loro emissioni. Semplificando, se il Paese A taglia le emissioni di 120 e il Paese B solo di 80, A può vendere a B i suoi 20 crediti in modo che entrambi si raggiunga il target 100. Ma questo mercato ha bisogno di regole e controlli rigorosi perché sia davvero utile alla riduzione complessiva della CO2. Regole di cui il Brasile, appoggiato dall’Australia (Paese che si regge sul carbone) e dall’Arabia Saudita (petrolio), non ha voluto sentire parlare. Il Paese di Bolsonaro vorrebbe per esempio vendere come crediti di CO2 foreste da impiantare lì dove ora sta disboscando (dunque danneggiando l’ambiente e guadagnandoci). Non solo, ha difeso il double countig (la CO2 assorbita da un certo progetto viene contata due volte, una da chi vende il progetto, l’altra da chi lo acquista).
Infine la cordata guidata dal Brasile ha insistito perché restassero sul mercato certificati emessi nel decennio scorso sulla base del Protocollo di Kyoto e ormai carta straccia: una loro tonnellata equivalente di CO2 costa 2 centesimi di dollaro contro i 25 euro di un credito certificato dalle autorità europee. Con simili premesse non c’erano speranze di intesa. Lo aveva detto il capo della delegazione del Parlamento europeo alla Cop25, il verde Bas Eickhout: «Sull’articolo 6 meglio nessun accordo che un accordo cattivo». Un mercato del carbonio fasullo e incontrollato vanificherebbe la reale riduzione delle emissioni e farebbe di fatto fallire gli Accordi di Parigi. Ora ci sono 11 mesi per riprovarci.