la Repubblica, 16 dicembre 2019
Sanzioni, ispezioni e stipendi d’oro. Ecco com’è crollata la Popolare di Bari
Nell’inchiesta del Procuratore aggiunto Roberto Rossi, e dei sostituti Federico Perrone Capano e Lydia Giorgio, sul crac della Banca Popolare di Bari balla una domanda cui i pm non hanno ancora trovato risposta. Quella, come hanno già cominciato a dire alcuni degli azionisti della maggioranza di governo (Di Maio e Renzi), che sarà al centro dell’agenda politica dopo che il salvataggio per mano pubblica della banca verrà completato. E che, all’osso, è questa: come si è potuti finire nel baratro? Quale vigilanza ha esercitato Banca d’Italia?
È un fatto che i vertici della Popolare, sicuramente a partire dal 2014, abbiano sistematicamente ostacolato il lavoro ispettivo di Palazzo Koch. Ed è un fatto che, ciò nonostante, la Banca centrale avesse per tempo perfettamente compreso che qualcosa di molto serio non funzionasse nel più grande Istituto di credito del Mezzogiorno. Perché, dunque, nulla è accaduto fino a venerdì scorso, quando è stato disposto il commissariamento? Repubblica ha avuto accesso agli atti ispettivi di Bankitalia, al suo carteggio con la Popolare, alle relazioni della Consob. E la sequenza di eventi che se ne ricava è questa.
La prima ispezione
L’8 ottobre del 2010, quale conseguenza dell’ispezione che aveva condotto sui conti della Popolare il 4 maggio di quell’anno, la Banca d’Italia dispone il blocco di ogni iniziativa di espansione dell’istituto. Non potrà insomma procedere all’acquisizione di altre banche. Già in quel momento, infatti, l’eventuale crescita della Popolare non viene ritenuta sufficientemente sostenuta dai fondamentali di bilancio, né da un’adeguata trasparenza di una governance ridotta di fatto ad affare della famiglia Jacobini (Marco, il patriarca, Gianluca e Luigi, i figli). E che la situazione non cambi, anzi peggiori, lo documentano le successive ispezioni. Come quella che, nella primavera del 2013, censura il modello di erogazione dei crediti ai clienti di riguardo della Popolare. Gli stessi crediti che si trasformeranno rapidamente in sofferenze inesigibili e che oggi impiombano i conti della banca. Scrivono infatti in quel 2013 gli ispettori: «Relativamente alla gestione dei rapporti con i gruppi Fusillo, Curci e la società da essi costituita nel 2012, Maiora Group S.p.a., già all’attenzione della vigilanza per il consistente supporto sotto varie forme fornito dalla banca, sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né esaustivamente rappresentati al consiglio. In generale l’esposizione verso i citati gruppi, che è di ben 177 milioni nel 2008, al 30 giugno si è attestato a 638 milioni nonostante negli anni la banca abbia acquistato da società sovvenute cespiti per 152 milioni, dei quali 131 milioni attraverso fondi immobiliari…». Quella di Fusillo, peraltro, sarà anche una delle ultime sconsiderate linee di credito aperte in questi ultimi due anni (la holding aveva già portato i libri in tribunale). Soprattutto dimostra, già in quel 2013, quello che persino il tollerante collegio sindacale della Popolare, all’epoca segnala. Che quelle linee di credito siano «particolarmente rischiose perché concentrate sempre su quegli stessi gruppi», «con l’effetto di porre la banca al di fuori dei limiti imposti dalle norme bancarie che impongono di frazionare il rischio al fine di non concentrare l’esposizione su stessi soggetti ma diversificarla».
Gli stipendi d’oro
Ma restiamo ancora in quel 2013. Perché, il 9 settembre, gli ispettori di Bankitalia che tornano alla Popolare evidenziano quattro anomalie che dovrebbero scrivere già allora la parola fine alla banca così come conosciuta e governata sin lì dagli Jacobini. È accaduto infatti che, mentre rastrella i risparmi di una vita ai piccoli investitori-correntisti, la governance abbia alzato generosamente i propri emolumenti. I compensi al Consiglio di amministrazione si sono triplicati, attestandosi a oltre un milione e 400mila euro. Mentre il patriarca e presidente Marco Jacobini, «nonostante la Banca d’Italia avesse invitato a contenere il compenso entro i livelli assegnati in precedenza, 200 mila euro circa – scrivono gli ispettori – si è visto riconoscere dal consiglio una retribuzione annua di 600 mila euro». C’è di più. Nel verbale ispettivo del 9 settembre si denunciano: «L’assenza di un ruolo incisivo da parte dei comitati con responsabilità in tema di governance, tutti presieduti da esponenti presenti in azienda da tempo»; «la mancata sostituzione del dottor Marco Jacobini, nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione (cessata la carica di Amministratore Delegato) che amplifica di fatto l’esigenza di presidiare accuratamente i potenziali conflitti di interesse all’interno della banca»; la «farraginosità dell’iter decisionale su tematiche di competenza dei due Vicedirettori (i figli Gianluca e Luigi, ndr ) dovute all’adozione di misure quali l’allontanamento dalle riunioni o l’astensione del Presidente per ovviare alle situazioni di conflitto, che limitavano nel contempo la funzione di coordinamento nei lavori consiliari da parte della figura del Presidente»; «l’assenza di un adeguato sistema di controlli interni che necessita di ulteriori provvedimenti e di maggiore potenziamento con la istituzione della figura del Chief Risk Officer, responsabile della funzione di Risk Management, dotato di effettive autonomia ed autorevolezza».
La sanzione revocata
Le anomalie riscontrate dagli ispettori di Bankitalia sono non solo gravi ma analoghe a quelle riscontrate a partire dal 2010. Le sanzioni appaiono a questo punto scontate. Ma, proprio in quel 2013, l’organo di vigilanza di Palazzo Koch non solo non ne commina nessuna. Ma dispone addirittura la revoca del provvedimento di blocco all’espansione della banca assunto nel maggio di tre anni prima. Perché? Negli atti acquisiti dalla Guardia di Finanza nell’inchiesta della Procura di Bari, allo stato, c’è soltanto una traccia. Documentata nel verbale del consiglio di amministrazione della Popolare del 17 ottobre del 2013. Quel giorno, Marco Jacobini, informa i consiglieri che «la vigilanza centrale di Bankitalia ci ha sollecitato a intervenire nell’operazione di salvataggio di Banca Tercas». È l’istituto abruzzese in quel momento sull’orlo del crac. Con cui Bankitalia è esposta per 480 milioni, il finanziamento concesso per tentare un primo salvataggio che però non era riuscito. È così? Il presidente Marco Jacobini bluffava o era sincero? Le prossime settimane e il prosieguo dell’inchiesta forse daranno una risposta. Sicuramente è intorno al nodo dell’acquisizione di Tercas che si giocherà la partita delle responsabilità del crac, tra amministratori e vigilanza. Lo sa bene uno dei due nuovi commissari scelti da Bankitalia per la Popolare: Antonio Blandini, che nel 2012 fu chiamato a far parte, sempre da via Nazionale, proprio del comitato di sorveglianza di una banca appena commissariata: la Tercas.