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 2019  dicembre 14 Sabato calendario

I 300 anni di Robinson Crusoe

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«Aiutati che il ciel ti aiuta». Non è un versetto delle Scritture, ma starebbe bene sul frontespizio del Robinson Crusoe, di cui Nutrimenti ha rimandato in libreria in questi giorni l’elegante traduzione di Alfredo Rizzardi, con una storica prefazione di Eugenio Montale, per celebrare il 300° anniversario della pubblicazione. Si dice, e c’è chi sa fare questi conti, che sia il libro in inglese più conosciuto nel mondo. Più di ogni singola opera di Shakespeare, ma ovviamente dopo la Bibbia, che lo stesso Robinson cita a ogni piè sospinto.
Nel 1719, quando lo scrisse, Daniel Defoe aveva quasi 60 anni. Secondo le aspettative di vita dell’epoca era ormai vecchio. Nato a Londra l’anno dopo la fine del Protettorato di Oliver Cromwell (1653-59), in una famiglia di nonconformisti – ai quali, come del resto ai cattolici, era interdetto l’accesso alle università e alle cariche pubbliche –, Defoe era comunque riuscito a scalare le vette della società inglese.
Puritano e monarchico allo stesso tempo, due cose che non avrebbero potuto andare insieme all’epoca della Guerra civile, ma che dopo la Gloriosa rivoluzione del 1688 diventarono un connubio possibile, era figlio di un commerciante di sego, originario dei Paesi Bassi, che si chiamava James Foe. Un cognome al quale, quando, attorno ai 40 anni, aveva già firmato buona parte dei 400 titoli – volumi, volumetti e libelli – che gli vengono attribuiti, aveva premesso un “De” che ben s’intonava al parruccone da gentiluomo con il quale era solito farsi ritrarre.
Arricchitosi come imprenditore, era poi finito in prigione per debiti. Giornalista affermato, un brutto giorno fu messo alla gogna come un malfattore (ma per fortuna senza l’aggravante del taglio delle orecchie), a causa di un trattatello satirico inviso all’establishment. Come tutti i borghesi dell’epoca, era un convinto sostenitore del nuovo Parlamento e del partito whig; ma vi fu chi – vicino al governo tory, e intuendo che una penna abile e disinvolta come la sua poteva risultare utile –, gli diede una grossa mano per saldare i debiti.
Abbandonati gli affari – intesi come business – Defoe aveva continuato a scrivere di economia e di mille argomenti di ordine pratico, suggerendo, tra le altre cose, la fondazione di una banca nazionale; la creazione di casse di risparmio e di compagnie di assicurazione; l’istituzione di pensioni per i vecchi e di ricoveri per i malati di mente; insieme, ovviamente, a una necessaria riforma delle leggi sulla… bancarotta. Ritornato ricco negli ultimi anni, grazie ai romanzi che scriveva a un tanto alla pagina, aveva finito i propri giorni in miseria (1731), depredato da un figlio che lo aveva poi abbandonato. Ebbe insomma una vita avventurosa e a tratti dissoluta, assai simile a quella di alcuni personaggi di cui scrisse in prima persona, al maschile e al femminile.
Il successo di Robinson fu immediato. Dopo pochi mesi Defoe consegnò all’editore l’immancabile seguito; e, proseguendo sullo slancio, pubblicò uno dopo l’altro: Le memorie di un cavaliere (1720), Le avventure del capitano Singleton (1720), Il colonnello Jack (1722), Il diario dell’anno della peste (1722), Moll Flanders (1722) e Lady Roxana (1724). Tutti in forma di memorie o di reportage. Una falsificazione geniale, dettata soprattutto dalla convinzione – tipica, allora, della gente del suo ceto – che ci fosse di meglio da fare che perdere tempo con le favole e la letteratura d’invenzione.
Ma il destino, ovvero ciò che fa sì che quel che succede sia legato alle coincidenze e alle opportunità del momento: il destino, che lo stesso Robinson chiama Provvidenza, volle che a dare uno scossone alla letteratura inglese fosse proprio lui, Defoe, di cui tutto si sarebbe potuto dire ma non che fosse un letterato.
Letta la straordinaria notizia di un marinaio scozzese di nome Selkirk, naufragato su di un’isola deserta nell’Oceano Pacifico, Defoe prese la palla al balzo e trovò il modo per mettere insieme i soldi per la dote di una figlia che si doveva sposare. Ma, soprattutto, diede fondo alla propria prodigiosa immaginazione.
Senza voli pindarici o ricerche di stile, nella lingua spontanea del cronista che per sopravvivere a sua volta deve sempre assicurarsi con la coda dell’occhio che il lettore rimanga attento e interessato, Defoe scrisse un romanzo immortale. Un libro ineludibile e irriducibile, checché ne dicano oggi le prefiche ideologizzate del politically correct; e una storia che, anche compendiata e scorciata, com’erano le versioni che abbiamo tutti avuto in mano da piccoli, rimane intatta nella sostanza. E questo a causa della vitalità del suo protagonista, e della sua voglia di capire, conquistare e crescere; e per quella sua alacrità da preadolescente – priva di turbamenti interiori e di tentazioni sessuali – alle prese con i decreti del destino.
Robinson è un reportage inventato e uno studio impassibile della condizione umana, in cui è riscritta in maniera quasi simbolica la storia della nostra civiltà. L’epopea dell’homo faber che è anche homo oeconomicus. Ed è un libro che ha un lato infantile, in cui il cui protagonista, pur credendosi, come qualsiasi bambino, al centro del mondo – è infatti convinto che il Padreterno sia a sua disposizione per rispondere ai tutti i quesiti – esprime ad alta voce un costante bisogno di rassicurazione. Al pari di Defoe, Robinson è infatti un tipico figlio della cultura protestante, inflessibilmente capace di badare ai propri affari e portato a leggere nel Libro della Rivelazione, così come nel Libro della Natura, per trarne conforto e soprattutto vantaggio. Per crescere e sopravvivere; e, possibilmente, arricchirsi e progredire.
Maksim Gor’kij lo definì come «la Bibbia degli invincibili»; e, nel momento stesso in cui scarica tutto quel che può dal relitto della nave, Robinson diventa l’incarnazione di un mito. Un eroe in cui vive la irrinunciabile necessità di una tradizione, ovvero di una cultura – oggi lo chiamano know-how – che funga da argine contro la regressione nella barbarie (con buona pace dei nipotini di Jean-Jacques Rousseau); e che è, insieme, un inno alla capacità e possibilità dell’uomo di fare sempre di necessità virtù. Ovvero, come dicono le Scritture, di soffiare sui tizzoni rimasti dopo un devastante incendio per ravvivare la fiammella della fede e della fiducia nel futuro.