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 2019  dicembre 14 Sabato calendario

Felliniani senza Fellini

Cosa penserebbe Federico Fellini di quest’Italia ormai terribilmente fellinizzata? Domanda assurda, ma nemmeno troppo oziosa a lasciarsi suggestionare dai protagonisti dell’odierna scena pubblica, così espressivi, infantili, narcisoni e privi di pudore da sembrare fieri della loro stessa grottesca buffoneria. Perché a partire da Berlusconi, che più di ogni altro ha accelerato il processo, non ce n’è uno che non sarebbe degno di figurare in qualche film del Maestro o del Mago, se si preferisce: Grillo che a teatro fa mangiare grilli secchi ai suoi deputati, Conte l’azzimatissimo, passando per il Salvini desnudo, vestito da militare, baciatore di rosari e divoratore social.
Ah, Fellini, quanto vedeva lungo! Gli studiosi la chiameranno pure” estetizzazione del potere”, ma lui aveva già previsto e illustrato l’andazzo. Fino al punto che nell’ordine al merito felliniano potrebbero ragionevolmente rientrare l’eloquio bislacco di Bersani, la dieta Life120 di Panzironi (che ha pure un gemel-lo), le sfere della D’Urso, l’altarino sullo yacht di Formigoni, Ruby in Messico sulla moto d’acqua, il bassotto di Reichlin che azzanna le scarpe di D’Alema, Brosio che si converte durante un’orgia, babbo Renzi con la barbetta caprina, Verdini suocero della nazione, e Boschi e Santanché e Mario Giordano e Mark Caltagirone e infiniti altri giù, giù nel profondo del grottesco, fino all’ex senatore Razzi che su un fondale montanaro visibilmente posticcio balla con una prosperosa simil- Heidi vestito da tirolese.
E nemmeno basta questa pretesa gallery a consacrare, tra sogno sudaticcio e cattiva commedia, la postuma grandezza, la superiorità politica di Fellini, sublime artista della fantasia fattasi realtà, ma anche poeta civile di un paese destinato dopo la sua morte a perdersi e a sbattersi sotto il dominio delle immagini, prigioniero dei suoi stessi inganni di scena, scardinati i confini tra schermi e spettatori, verità e menzogna – solo che qui non si paga il biglietto, ed è il peggior guaio.
Ma moltissimo di ciò che è ora sotto agli occhi Fellini aveva già immesso, con la levità di una danza, nell’immaginario di ognuno ben oltre il tempo delle sue visioni, presagio di uno smottamento profondo, cataclismatico. Gli invasivi paparazzi della Dolce vita ad anticipare i sacrifici umani alla dea Visibilità; il delirio delle merci e della televisione nell’Intervista; i centurioni a spasso per Roma; il naufragio di E la nave va. La storia apparente d’Italia, più o meno, là dove la mutazione antropologica andava via via rispecchiandosi nella sua chiassosa esteriorità: il terrore della solitudine, il trionfo dei cuochi, l’isteria dei talk show, il contagio della chirurgia estetica. Tutto all’insegna di «un solo enorme effetto speciale ottenuto elettronicamente», come ben scritto da Andrea Minuz in Viaggio al termine dell’Italia, saggio appunto sul Fellini politico (Rubbettino, 2012).
Destinazione finale: la messinscena del Nulla. Salvo scoprire con il dovuto smarrimento che uno degli ultimi soggetti, mai realizzato, guarda caso era su Venezia (ne ha scritto Piero Citati), città morta che continuava a gemere di turismo, scempiaggini e predazioni, fin quando l’acqua sporca e fetida della laguna non saliva a sommergerla, mescolata allo sterco.
Curioso esito per un artista che negli anni Sessanta e Settanta, in un tempo iper- politicizzato di schieramenti obbligatori, si era abilmente mantenuto a distanza, di lato, o indietro, o forse sopra l’impegno, i traffici, le polemiche dei partiti. Certo non marxista, amico personale di Andreotti, i cui occhi gli sembravano provenire «da chissà quale oscuro laboratorio». Eppure si trattava di una lontananza di facciata perché qualcosa del suo paese segretamente gli entrava dentro e lì, nella brodaglia dell’inconscio, sobolliva, fermentava.
Se ne trova ampia traccia nel gigantesco Libro dei sogni ( appena ristampato da Rizzoli). Di notte Fellini “vedeva” Moro spezzare bottiglie di champagne in conferenza stampa e Leone, allora Capo dello Stato, che in frac bianco coi lustrini danzava con «una soubrette tipo Carmen Miranda»; e ancora gli appariva in sonno La Malfa che affondava nel Golfo di Napoli, Colombo gli mandava la Guardia di Finanza, Almirante veniva a trovarlo con un gruppo di attivisti mentre lui, poveraccio, era seduto sulla tazza del cesso. Nulla di troppo perturbante. L’Avvocato Agnelli gli cucinava degli spaghetti, Martelli vomitava uno schifosissimo calamaro. Una notte Fellini si ritrovò addirittura arruolato nelle Br, cercava quindi di svignarsela, sia pure con qualche fatica.
Dopo tutto, questa partecipazione lunare non gli impedì di raccontare l’incrocio fra la prepotenza e la cialtroneria dei fascisti in Amarcord, così come i contraccolpi del Sessantotto nell’apologo di Prova d’orchestra o il femminismo ne La città delle donne. In quest’ultima pellicola a un certo punto spunta un cartello con su scritto” Progressenza”, acuta sintesi di” progresso” e” decadenza”. Se c’è una costante, nel Fellini politico, è quella di puntare i riflettori e la macchina da presa sulla frattura, sempre più drammatica, che nel tempo andava aprendosi fra la modernizzazione della società italiana e l’arcaico passato che si tirava dietro.
Alla metà degli anni Ottanta, con il solito anticipo, in Ginger e Fred Fellini fa entrare Berlusconi, presentato come il Cavalier Fulvio Lombardoni (doveva chiamarsi Lambrusconi, poco meno di un anagramma), proprietario della tv commerciale in cui Mastroianni e la Masina tornano a esibirsi. Su suggerimento di Zanzotto, l’emittente ha nome” Tele Hilinx”, che in greco antico vuol dire” malessere”,” disagio”, “turbamento”.
Sono anni difficili per il Maestro, che nessun produttore vuol più far lavorare perché costa troppo. Per il Cavaliere vive un’autentica ossessione, ne è attratto e insieme ne ha paura, come dinanzi a un carrarmato che sta per travolgere fiori e germogli. «Non capisci – confida a Nicola Piovani – che quello è il cancro dei prossimi vent’anni?». E comunque. Quando parte la campagna veltronian- comunista contro le interruzioni pubblicitarie dei film sulle reti Mediaset è proprio di Fellini lo slogan: «Non s’interrompe un’emozione».
Ma Berlusconi passa, e chi lo ferma più? Fellini muore, nel pieno disastro della Prima Repubblica, il 31 ottobre 1993. Per coincidenza, quello stesso giorno compare su un suo rotocalco il marchio di Forza Italia. Quel che segue è noto e stranoto. Nell’arco ormai di un quarto di secolo, l’Italia assomiglia molto a come l’aveva vista Fellini, ma attenzione: senza grazia, senza poesia, senza fantasia, senza fiaba, senza danza, senza nostalgia. È l’ombra, semmai, è la scimmia di Fellini, è qualcosa che non si capisce, né bastano cent’anni, l’ennesimo anniversario, per riconoscerla, né volerle più bene.