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 2019  dicembre 14 Sabato calendario

Intervista a Claudia Cardinale (ricorda Fellini)

L’ultima grande diva del cinema italiano scende per strada ad aprirti il portone. Claudia Cardinale vive da sola in questa casa vicina a Pont de Sully con regale affaccio sulla Senna. «Il palazzo apparteneva a non so quale sovrano di Francia ma io l’ho scelto perché si specchiava sul fiume. Sono nata a Tunisi e ho sempre avuto bisogno di avere l’acqua intorno». Non è un caso che Fellini l’abbia scelta in 8½ come “la ragazza della fonte”, la ragazza dell’acqua, insieme “ispirazione” ed “energia salvifica” in cui si imbatte il suo alter ego Mastroianni. «Visconti mi ha donato le ali, ma Federico mi ha riconciliato con me stessa», dice accogliendoti nel salone dalle ampie finestre attraverso le quali entrano i colori della Senna e anche i clacson della città paralizzata dallo sciopero. Ma il punto di luce più forte è la cascata d’oro che dal camino discende sul legno antico del pavimento come in un quadro di Klimt: ogni trofeo è un pezzo della storia del cinema, inclusa quella vissuta dietro le quinte. L’outing di Rock Hudson, che volle tenere la sua mano in punto di morte. Il bacio concesso al gattopardo Lancaster e la gelosia furente del più giovane Delon-Tancredi. Ma non tira aria da mausoleo. Lei si fa largo tra premi e ricordi con la stessa divertita grazia con cui ha assecondato la quieta metamorfosi della sua bellezza. E quando comincia a raccontare gli occhi emanano quegli zampilli di mistero che fecero innamorare il Maestro.
Perché dice che Fellini l’ha riconciliata con se stessa?
«È stato il primo regista che mi ha fatto parlare con la mia voce. Fino a quel momento ero stata condannata al silenzio del doppiaggio. E lui mi ha permesso di esprimermi nella mia vera identità».
Cosa trovava nella sua voce?
«Forse un’antica afasia. Il mio timbro roco nasce dal silenzio in cui mi chiudevo da ragazzina. Parlavo pochissimo e le corde vocali ne hanno risentito. Federico scoprì questa mia voce da maschiaccio con cui avevo convissuto male».
Liberando la sua voce liberò anche la sua personalità.
«Per la prima volta giravo senza avere un copione in mano. E il mio ruolo era quello di un personaggio che si chiamava come me».
Non doveva essere facile.
«Eh no. Non disponendo di un testo scritto, non sapevo niente della storia. Ma nessuno sapeva bene cosa Federico avesse in testa. E probabilmente non lo sapeva neppure lui. Scriveva il film giorno per giorno. E poco prima di girare ci faceva avere pezzettini di carta con qualche battuta».
La lavorazione di “8 ½” restò avvolta nel mistero.
«E lui si divertiva a rendere ancora più spessa la nebbia. Diceva di essere come Argo, il mostro della mitologia provvisto di cento occhi che non chiudeva mai tutti insieme: il film sarebbe dovuto essere la sintesi di tutte le sue visioni».
Era un modo per far crescere la
curiosità.
«I giornalisti si affannavano a cercarne la chiave. Alcuni scrissero che sarebbe stata l’opera della sua maturità, altri insistevano sul carattere comico del film».
Tullio Kezich racconta che Fellini teneva così tanto all’impronta divertente che fece affiggere un cartello alla macchina da presa: «Ricordati che è un film comico».
Niente di più lontano.
«Sì, lo scriveva ovunque: anche in un biglietto che teneva in tasca. Ma un giorno ci disse che il film oscillava tra una seduta psicoanalitica e un esame di coscienza. Noi non capivamo cosa stesse cercando.
Continuavamo a girare queste scene surreali, che si addicevano più alla materia prima dell’inconscio che alla vita reale».
Solo alla fine del film disse: Guido Anselmi, il protagonista, sono io.
«E solo dopo aver girato il film capimmo che aveva messo in scena il suo universo privato, la formazione cattolica, le ossessioni, i sogni, le sue ambizioni».
Non eravate consapevoli di girare il capolavoro che avrebbe cambiato la storia del cinema?
«Assolutamente no, l’avremmo capito più tardi. Fin dall’inizio intorno al film c’era stata molta incertezza. A un certo punto Federico era stato tentato di mollare. Stava già scrivendo una lettera ad Angelo Rizzoli quando venne distolto dai festeggiamenti per un macchinista. E di fronte all’entusiasmo delle maestranze per l’avventura che cominciava, lui non si sentì più di abbandonare».
Ma come la fece entrare nella parte? Lei rappresentava l’ispirazione, la grazia, la bellezza salvifica.
«Prima di cominciare il film, avevamo fatto delle lunghe passeggiate a Villa Borghese. Federico parlava ininterrottamente».
Di cosa?
«Di tutto. Della sua vita, dell’infanzia, dei suoi feticismi, dei suoi fantasmi. Io lo ascoltavo come ipnotizzata da questo flusso di coscienza, dalla sua vocina tenera che non potrò mai dimenticare. Poi gli domandavo: va bene Federico, ma la mia parte qual è? E lui: tranquilla Claudina, devi fare te stessa, puoi dire quello che vuoi. Ma cosa dico? Quello che ti viene in mente».
E fu davvero così?
«Sì. Tutto era affidato all’improvvisazione anche se poi Federico mi portava esattamente dove voleva lui. Sul set si metteva davanti a me e mi chiedeva: sei innamorata? Che cosa vuol dire restare fedeli a un progetto? Saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita daccapo? E io rispondevo. E quei dialoghi entravano nel film. A volte durante la conversazione, senza interrompere il filo, Federico lasciava il posto a Marcello Mastroianni e si metteva dietro la macchina da presa. Parlavo d’amore con uno stesso uomo che aveva due facce diverse».
Tra Mastroianni e Fellini c’era davvero un amalgama speciale.
«In apparenza diversi ma poi si compenetravano. Marcello era mite, Federico più energico. Ma poi era Marcello che si lasciava andare alla passione, mentre Federico si teneva a debita distanza dai coinvolgimenti sentimentali».
Com’era il rapporto di Fellini con le donne?
«Il suo immaginario si nutriva del femminile esuberante. Ma bisogna separare le storie vere dalla mitografia: purtroppo qualche attrice ha rivendicato ruoli amorosi che nella vita reale non aveva».
E con lei, Claudia, com’era?
«È sempre stato molto affettuoso, caldo, animato da un sentimento di tenerezza. Ma tra noi non c’erano ambiguità. E non è un caso che l’amicizia si sia estesa a Giulietta, che aveva capito perfettamente che non ero un pericoloso polo di attrazione».
Sul set la faceva sentire la più bella.
«Sì, la più importante, la più speciale di tutte. Fece con me una cosa che nessun altro regista ha mai fatto.
Durante la lavorazione del film mi veniva a prendere tutte le mattine a casa, poi la sera mi riaccompagnava. Giravamo tra Tivoli, Viterbo, Ostia. E poi negli stabilimenti sull’Appia.
Non mi faceva tornare da sola».
Come spiega quest’attenzione?
«Avevo 24 anni e ne rimasi colpita.
Come se volesse avvolgermi in un abbraccio protettivo. Federico sapeva guardarti dentro. E capiva anche il non detto».
Tramite il suo alter ego Mastroianni le fece una bellissima dichiarazione d’amore: «Quanto sei bella, mi metti in soggezione, mi fai battere il cuore come un collegiale.
Che rispetto vero, profondo comunichi».
«Era il suo modo per farmi sentire speciale. Unica. Con una complicazione».
Quale?
«Mastroianni era davvero innamorato di me. Marcello l’ha raccontato pubblicamente, facendo ingelosire Catherine Deneuve che ora mi detesta. Aveva cominciato a corteggiarmi sul set del Bell’Antonio, ma io non ci sono mai cascata. Né con lui né con altri».
Perché resisteva a Mastroianni?
«Avevo avuto una giovinezza drammatica. Da ragazzina ero stata violentata da un uomo che mi prese in macchina all’uscita da scuola. Da quello stupro è nato mio figlio, ma la ferita è rimasta».
Le è rimasta una sorta di diffidenza per il maschile?
«No, non direi. Ho tanti amici maschi, soprattutto tanti amici gay.
Ma ho scelto una vita sentimentale senza ombre né doppiezze. Il mio unico uomo è stato Pasquale Squitieri».
Il corteggiamento di Mastroianni interferì sul set di “8 ½”?
«No. Tra noi c’era una complicità professionale che passava sopra ogni cosa».
Cosa ricorda di più della lavorazione del film?
«Il caos. Il disordine. Federico si nutriva della caciara, come a Roma viene chiamato il chiasso divertente. Guardi questa foto con Mastroianni avvolto in un lenzuolo, e le comparse intorno. Mi sembra di sentire ancora quella confusione».
Ma è vero che Fellini minacciava Mastroianni di farlo vedere alle terme completamente nudo?
«Sì, gli diceva che avrebbe fatto scivolare il lenzuolo a terra. E Marcello protestava. Anche io non mi sono mai voluta spogliare. Perché avrei dovuto mercificare il mio corpo? Mi sono sempre rifiutata».
Ma Fellini non glielo chiese.
«No, lui no. È sempre stato rispettoso della mia fisicità, che ammirava senza turbamenti. A differenza di Moravia che ne restò profondamente inquietato.
Federico si preoccupava solo che mangiassi a pranzo: sapeva che avevo l’abitudine di saltare il pasto per evitare il torpore pomeridiano».
In quello stesso anno lei girò “Il Gattopardo”, un altro capolavoro destinato a segnare la storia del cinema.
«Sì, il 1962 fu un anno incredibile.
Negli stessi mesi lavorai per questi due film. Era come dividersi tra due pianeti sideralmente distanti.
Luchino era l’ordine, Federico l’anarchia. E se con Fellini era un happening pieno di sorprese, sul set di Visconti l’atmosfera sfiorava il sacro: non si poteva ridere né respirare, e le scene venivano provate come a teatro».
E lei come faceva a sdoppiarsi tra Angelica e Claudia?
«Una fatica immane. Non solo dovevo viaggiare ogni settimana tra la Sicilia e Roma, ma anche cambiare il colore dei capelli: Luchino mi voleva scurissima, Federico con riflessi biondi. Ed era vietato indossare parrucche. Loro erano furenti per questa sovrapposizione».
È rimasta amica di entrambi?
«Sì, Luchino non amava le donne ma ha amato molto me: forse per questa mia anima da maschiaccio. Insieme abbiamo viaggiato tanto, e anche a Roma mi invitava spesso a cena a casa: sotto il tovagliolo mi faceva trovare meravigliosi gioielli di Cartier. Con Federico e Giulietta ci siamo frequentati fino alla fine».
In che modo l’ha cambiata Fellini?
«Mi ha dato sicurezza. Gli sarò sempre grata per avermi fatto coincidere con me stessa. Il mio non è stato un lavoro semplice: ho interpretato al cinema 180 donne diverse, riuscendo sempre a proteggere la mia identità, il mio equilibrio».
Finita l’intervista, facciamo un ultimo giro nella galleria di foto dove fa capolino un Mitterrand dal sorriso sornione. Lei lo scruta con uno sguardo malizioso. Anche monsieur le president? «Scrissero che eravamo amanti e io querelai la giornalista. Ricevetti una lettera di François: Chére Claudia, hai fatto bene a querelare il giornale. Questa moda scandalistica rischia di inquinare la funzione giornalistica essenziale per la vita democratica eccetera eccetera. Post scriptum.
Però ti confesso che mi sarebbe piaciuto molto». Ride di cuore, senza compiacersi troppo. «La mia fortuna è che sono rimasta Claudia, una donna normale. Vuole che la riaccompagni al portone?».