Robinson, 14 dicembre 2019
Tutte le donne di Fellini
Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l’articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po’ ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d’amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d’epoca, polposa e un po’ ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l’uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l’ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all’alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c’è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un’amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria.
E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un’altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell’epocale L’eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un’altra moglie, la realtà di quell’amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un’altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l’autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua…». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.