Robinson, 14 dicembre 2019
Fellini nei ricordi di Pietro Citati, suo vicino di casa
Federico Fellini era mio vicino di casa, almeno nella sua prima incarnazione. Sua moglie, Giulietta Masina, una delle più grandi (e misconosciute) attrici italiane, possedeva una abitazione (o almeno un piano) proprio davanti a casa mia, nel complicato intreccio tra via Montevideo e via Lutezia. Il rumore dei tram è lontanissimo, inesistente. Là, le dimore dei grandi: il ministro degli Esteri, che ora si è felicemente dissolto nel regno dei cieli, o più probabilmente, degli inferi, di cui gode i tepori. Dalla nostra parte, l’aria è più modesta: abbiamo un decoroso portiere di Ceylon – con innumerevoli parenti, che studiano a Londra – : insomma il decoro, di cui non ci importa niente, è rispettato.
Ho conosciuto molto tardi Federico Fellini: quando aveva valicato il culmine della gloria. Lui mi donò La dolce vita (che più tardi compresi, – abbastanza tardi). Io un volume di santi cristiani, del IV secolo, commentato da una bravissima, rotondissima e perfidissima studiosa olandese, che aveva insegnato anche in Africa teologia del III secolo, la teologia di Ireneo. Fellini ed io tornammo a vederci. Misurando le distanze che ci separavano, mi chiamò il preside, e presto mi invitò da tutte le parti (non a casa sua, le case private erano escluse), e soprattutto a Cinecittà. La macchina della produzione cinematografica si fermava proprio davanti a via Lutezia 9, davanti a casa mia. Mi faceva salire sulla sua automobile, e poi mi portava con sé, chiacchierando, fino a notte piena. Non ricordo altri discorsi così divertenti, piacevoli, infantili, frivoli, aerei. Ma non ricordo cosa dicessimo. Parlavamo di tutto, come due bambini sfacciati. I discorsi crescevano, gli scherzi aumentavano, e alla fine arrivavamo a Cinecittà. Con quale letizia Fellini ripeteva e innovava i suoi testi, inventava le sue immagini, proponeva le sue gag sotto la forma di Marcello Mastroianni, che egli amava moltissimo, come fosse il suo doppio o il suo amico prediletto, del quale non poteva fare a meno.
Mise in scena per me Casanova e
Ginger e Fred (film delizioso). Il bello era quando (da grande demagogo) impersonava tutte le parti, tutte le voci, persino il paesaggio; e dava la sua voce (misteriosa) a un misterioso Marcello Mastroianni, che era il simbolo, per lui, della infelice e felice mediocrità. Era da tutte le parti e da nessuna parte; e qui nacque quello che venne chiamato lo “stile felliniano”, adorato da Milan Kundera. Tutti lo imitavano un poco.
Intanto lui dormiva (ma solo due ore per notte); oppure la notte non dormiva (così almeno raccontava o inventava), e risolveva senza proporseli gli inutilmente discussi problemi del cinema. Aveva idee incomprese. Dovunque passava, era come una lieve, aerea divinità luminosa – come il dio che rivivifica il Messico. Estendeva sempre più lontano la sua presenza: gli interessavano molte altre cose. Leggeva Poe, anche i frammenti più oscuri e insignificanti. Leggeva appassionatamente Landolfi, Gadda, e soprattutto Kafka, nel quale contemplava una immagine di sé. Quando parlava di Kafka, si avventurava in possibili e soprattutto impossibili viaggi insieme a Kafka negli Stati Uniti. Adorava Il disperso.
L’avventura kafkiana diventava sempre più profonda: le immagini, le figure, i paesaggi; e non poteva fare a meno di quella doppia condizione. Aveva deciso di obbedire a Jung, sebbene gli togliesse del tutto il tono apocalittico e le ossessioni. Di Freud si disinteressò; ed era più propenso a vedere dovunque una religiosa espansione. Ma niente lo distraeva, nel fondo: era molto legato alla sua propria immagine, perché pensava che il cinema fosse fatto di immagini; non di discorsi intellettuali, che erano soltanto un motivo minore.
A quell’amicizia notturna di Roma, a quelle lunghissime chiacchiere si aggiungeva una geniale dolcezza – una forma sottilissima di felicità, che non avrei mai saputo immaginare. Spesso non posso negare che si trattasse di pura e semplice ricerca della felicità – anche se piena di inquietudini, e Fellini fosse disposto a tutte le amicizie, e persino alla fratellanza con le figure più spregevoli.
Non dava mai soluzioni, oppure ne dava molte. La verità era dappertutto, anche se ne conosciamo solo (per ragioni sconosciute) punti particolarmente intensi. In certi punti, c’era piena luce, piena immagine. A tratti, c’erano grandi frammenti di piena felicità, che creavano felicità anche per noi, sebbene scossi o sconvolti. Era incalcolabile il suo dono di calmare, quietare, legare, suddividere, comporre. Si comportava come un classico. Era di nuovo Poussin, con uno scintillio di Vermeer. Sentiva di essere della razza dei grandi pittori. Sebbene molte altre affinità lo spingessero verso la letteratura.
Negli anni successivi, vidi sempre più spesso Fellini. Ebbi l’impressione di collaborare un poco alla sua opera. Fui criticato sovranamente dal professor Giovanni Macchia, perché avevo dedicato un libro a Fellini. Era un intruso, e doveva stare al suo posto, sebbene lui non pretendesse niente.
Fellini amava molto Venezia. Ne sorvolava con l’aeroplano gli squisiti giardini. Aveva fatto fotografare le uscite del Canal grande; e gli pareva di scendere sempre più nei vecchi canali, nel mistero, o nell’invisibile. Percorreva tutta la tenebrosa, e così leggera Venezia. Venezia: questa città immaginaria, costruita di rifrazioni mentali, tra le quali lui si muoveva piacevolmente come in uno spettacolo vivo. D’inverno passeggiava sulla laguna gelata. Rilesse Il desiderio e la ricerca del tutto di Frederick Rolfe: quella trama platonica gli piaceva. Si sentiva come un gentiluomo del XVI o del XVII o del XVIII secolo. Ormai non apparteneva più al mondo moderno. Non apparteneva più a niente.
Il pubblico lo adorava – come se fosse Michelangelo o Raffaello – ma non andava a vedere i suoi film. Non si era mai visto un fenomeno simile: immensamente popolare, doveva elemosinare gli spettatori, come un povero guitto. Una grossa casa cinematografica giapponese, la Sony, si offerse di finanziare le sue opere. Fellini ci credette: l’opera senza scosse, finanziata da un’impresa potentissima, accompagnava gli ultimi anni della sua vita. Ma i giapponesi, dopo due o tre anni, dopo proposte contrapposte, lo ingannarono. Non avevano nessun desiderio di finanziare un film su Venezia o su qualsiasi altro argomento immaginato da Fellini. Finsero (senza alcuna intenzione di realizzarlo) una specie di concorso universale, come quello che nel 1969 si sarebbe dovuto svolgere tra Fellini, Bergman e Kurosawa. Lui si rese conto della trappola. Ma accettò.
Sembrava che avesse sopportato una vita di infinita pesantezza (quale, in realtà, non aveva sopportato). Il passato, ossessivamente, gli si appendeva alla mente. Aveva solo 73 anni. Ma si sentiva vecchissimo, stanchissimo, come se avesse varcato chissà quali montagne, amato tantissime donne, eseguito avventure impensabili. Non gli restava che morire. Non aveva una buona salute. Come si legge nei narratori antichi, si ammalò gravissimamente. Versò sangue. Non riuscì a contenersi. E di colpo, senza preavviso, senza dire niente a nessuno, morì. Scomparve come un’ombra di Poe, piena di inquietudine.