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 2019  dicembre 14 Sabato calendario

Grand Hotel Il genio di Fellini in una stanza


La stanza era la suite 315. «Numerologicamen-te segnata», disse Gustavo Rol in una intervista alla Stampa mentre il suo amico Federico Fellini, che in quella camera aveva avuto un malore fatale, aspettava la morte in un letto d’ospedale. La 315 sarebbe rimasta il suo finale domicilio, l’ultima casa per i suoi sogni e disegni, ai piani alti del Grand Hotel di Rimini, la finestra sul mare. Per raccontarla ci vorrebbe la malinconia di Lucio Dalla quando inventò Caruso al pianoforte, ma in quella suite non c’erano strumenti musicali, solo uno scrittoio, con la ribaltina chiusa e la chiave assente, custodita chissà dove. Forse nel panciotto di Pietro Arpesella, patron dell’albergo, cerimoniere dei passaggi felliniani a Rimini, che gli riservava sempre quel rifugio e il trattamento d’eccellenza. Ora è una storia di fantasmi, se ne sono andati tutti: Federico e Pietro, Titta e Gustavo, la Gradisca e Lady Diana. O tutti ballano dietro le persiane.Il Grand Hotel è ancora il moloch di Rimini. E Fellini lo trovi ancora lì, più che in ogni altrove, ma ti serve la chiave per aprire la porta e rivedere il genio in una stanza. Tempo dopo la sua morte telefonai ad Arpesella e gli chiesi di farmici dormire per due notti, di raccontarmi i soggiorni ( sempre lampo) di Fellini. Mi accolse nella sua eleganza fuori da ogni tempo, uno dei tanti stratagemmi per non sentirsi mai vecchio, mi accompagnò fino alla soglia, ma non la varcò. Disse che il Maestro, lì dentro, voleva restare solo, non riceveva mai nessuno. Gli uomini bramano di poter entrare nel luogo dei desideri poi, quando riescono, ci si chiudono dentro.Il salottino era dunque un vezzo. C’era una poltrona damascata, messa in modo da poter vedere, attraverso la finestra, uno scorcio di spiaggia, la bandiera blu che consentiva la balneazione. Davanti, un panchetto poggiapiedi che, finché Fellini era vivo, veniva messo e tolto quando arrivava e partiva. Potevi immaginarlo seduto lì, con un blocco da disegno sulle ginocchia, a tracciare schizzi, riportare appunti sui sogni della notte precedente, pensare come inserirli nel film che non avrebbe fatto mai più, ma che continuava a girare nella sua mente. I mobili erano di legno scuro, pesanti. Sopra al letto c’era un quadro raffigurante una scena della rivoluzione francese: la decapitazione dei nobili. Qualche tempo dopo venne in visita a Rimini, per ricevere un premio al Centro Pio Manzù, Lady Diana. Una folla di giornalisti l’aspettava nella hall del Grand Hotel. Avvicinai Arpesella e gli chiesi dove avesse alloggiato la principessa. «Nella suite di Fellini!», rispose. Gli domandai se avesse cambiato il quadro sul letto. «Certo che no! Non si tocca niente!». E sorrise come un bambino furbo. Fellini si sarebbe divertito: amava gli scherzi, ma bisogna essere in due a farli, per vedere l’effetto riflesso nell’altro, per poter rievocare a distanza di tempo. Il suo compare preferito per quelle occasioni era Titta Benzi, alter ego in Amarcord, poi avvocato e tesoriere della memoria. Prendemmo un caffè rievocando gli ultimi giorni riminesi con Federico. Nemmeno lui aveva accesso alla 315. Lo aspettò in terrazza, al sole. Stettero come lucertole sfinite, Fellini borbottò: «Cosa vuoi ancora che stia lì a fare film... i produttori dicono che li faccio spendere troppo per quel che poi incassano e allora amen».Sulle loro fronti si allungò l’ombra di Arpesella, in veste ufficiale: «Maestro, ci sarebbe il Magnifico Rettore, da Bologna, per lei».«S’avanzi», risposero.L’accademico dai molti titoli e dai tanti nomi apparve, accompagnato da una giovane donna. Si compiacque che il Maestro apparisse in ripresa, poi fece il grande annuncio: «Sono venuto a offrirle una laurea».Fellini domandò: «In cinematografia?».«No».«E allora, in che cosa mi dovrei laureare?».«Lettere?».«Sono un regista, non sono uno scrittore».Non voleva toghe, ma l’altro insisteva. Allora sussurrò a Titta: «Come ce ne liberiamo?».L’avvocato proclamò: «Noi le siamo riconoscenti di essere venuto fin qui e, soprattutto, di averci portato a conoscere la sua bella figliola…».«È mia moglie», interruppe, gelido, il Magnifico Rettore.Poco dopo se ne andò, sdegnato. Fellini tornò in camera.Ci restava fino a tardi, finché fu troppo tardi per alzarsi ancora una volta.Sognava mondi trasfigurati. Il Grand Hotel di Amarcord era una sua reinvenzione. Aggiunse magia e peccato, scaloni e broccati. Disegnò una favola. Al funerale della Gradisca il prete celebrante affermò che quel soprannome ( anziché per un invito rivolto al principe) veniva dalla città sull’Isonzo in cui il padre era stato da militare. D’altronde i giornali cattolici, nella sua gioventù, avevano definito quel luogo «un tempio dell’oblio» criticando «la moda sfacciata che mette allo scoperto lo stretto di Messina». I quotidiani riminesi avevano tradotto: «Qui si ammirano i più bei decolletes della Riviera, mentre sulle terrazze inondate dalla luce lo scontento e l’inquietudine si placano nel fox trot». Quelli di Fellini si placavano nei sogni, scivolarono nell’ultimo.Pietro Arpesella si è sparato a 95 anni, fuggito dalla clinica dove era ricoverato. Titta Benzi è morto a 94, circondato dai ricordi, tra cui brillavano gli ultimi cinque giorni a Rimini, con Federico. Gustavo Rol a 91, un anno appena dopo Fellini. Avevano un accordo: «Appena uno dei due va di là, poi viene a prendere l’altro». Il Grand Hotel ha superato i 111 anni, aggiunto la residenza Parco Fellini e la spa Dolce Vita, cambiato gli arredi. La suite è ora executive. Nello scriverlo par di sentire il controcanto di Federico e Titta, insieme: «Osta te!».