Robinson, 14 dicembre 2019
Quando Fellini disse "Io devo credere"
Fra tante meraviglie spodestate dalla realtà, ricordo che domandai a Fellini quale suo film ci avrebbe lasciato per cominciare a scrivere dei libri, e fu così che ci infilammo in un immaginario gioco di parole. «Chi avresti scelto d’essere? Uno scrittore?» Stette un po’ in silenzio e per tentarlo gli proposi Kafka. Allora ruppe il gioco e disse: «Odissea nello spazio», e andò subito a Kubrick dicendo che lo pensava preso da un senso vagamente religioso, e inquietante, come l’uranio. Poi spiegò: «Ho bisogno di credere, per la verità un bisogno né vivo né maturo, ma una necessità infantile di sentirmi protetto, di essere giudicato benevolmente, cioè capito e possibilmente perdonato».
Mario Trevi, di formazione junghiana come Federico, dirà: «Era spesso colpito dal mistero della finitezza umana, del nostro pensiero e del destino della vita».
Quando prendeva un’aria tra il deluso e il defraudato conservava l’idea di svegliarsi e scoprire che tutto era al suo posto, persino i prati del barocco gli sembravano tagliati con le forbicine per le unghie. Aveva avuto i suoi sortilegi: donne come capodogli, fughe di Bach e marcette dei clown, innocenze e ludibri, i mari e cieli sempre azzurri. Su tutto, un vento carezzevole: la vita. Occorreva un secolo e un evento straordinario per ricordare un grande artista, famoso per averci lasciato la straordinaria ricchezza creativa di una modernità che dal grande cinema ha ricevuto una delle più vaste espressioni culturali rivelate dal consenso di mezzo mondo.
Serviva il centenario di una nascita per veder nascere intorno alla sua fama un’energia espressa dall’idea che «l’immaginazione è il modo più alto di pensare». Ora il suo nome vive a Rimini l’orgoglio di unirlo a Roma portandolo a due passi da Cinecittà, e quindi dall’Italia e dal mondo.
Ricordava la tenerezza della madre che lo voleva avvocato, a Bologna, tanto che dirà persino al Vescovo: «Non si può avere tutto dalla vita!».
Federico dirà: «Presto cadranno i miti, i tabù, i pregiudizi, e i problemi fondamentali dell’uomo saranno gli stessi ovunque. L’ho capito una sera a Rimini, uscivo da un hangar favoloso che si chiamava” L’altro Mondo”. I ragazzi chiesero di salire in macchina, li vidi con la chitarra bianca a tracolla, i capelli verdi e rosa, il pollice che chiedeva un passaggio. Li feci salire. E intanto mi chiedevo in quale lingua avremmo parlato. Avevano l’estraneità pittoresca e docile, al tempo stesso buffa e aggraziata, e chiesi loro di dove fossero:” di Rimini”, risposero. L’” Altro Mondo” più tardi avrà una storia alle prese con la modernità dei giovani nella loro, privata, voglia di viverla. Per noi non era andata così e ci aspettava un Impero. Avemmo un corpo giovane non la giovinezza. La nascosero in una nuvolaglia di promesse e il loro scopo sembrerà quello di restare innocenti». «Il nostro labirinto», aggiungerà, «li ha resi irresponsabili e il loro scopo sarà solo di mostrare l’effetto della loro irrilevanza».
Prima o poi saranno costretti, disse, a riconoscersi in un mondo di separazioni un po’ infelice, si feriranno in altri modi e in altri mondi. E qui allargò il problema: «Penso alle accuse dei dogmatici che credono di dover avere le idee chiare su tutto, senza dubitare di nulla, mentre io credo che un contrasto vitale sia per tutti la salvezza dal mummificare l’esistenza, cioè tendere l’orecchio e il cuore a qualcosa che si è dimenticato. Ci risveglia l’abbraccio del panno caldo che durava sul lettone quando si veniva stesi dentro il bianco camicione cattolico e ricordava ancora l’odore di canapa bagnata».
Quella di Federico Fellini, scriverà Milan Kundera, è «la storia di una immaginazione portata verso cime inaccessibili».
«Mi accorgo di amare ciò che vivo», dirà Federico, e «ciò che amo è che mi piacerebbe sapere se i poveri ogni tanto scrutano le loro immemori visioni delle nostre caute felicità».
Io da Chernobyl gli confidai di avere fatto un sogno felliniano, a Kiev, dove un impresario mi chiedeva di attraversare il vuoto camminando sopra una riga misteriosa che sotto i piedi aveva solo il mio coraggio.
E Federico si affrettò a dirmi: «Non credi che quello fosse l’inizio, e non la conclusione del tuo viaggio?». Poi aggiunse: «Non sei curioso d’immaginare quando dove e come, forse si saprà?».