Robinson, 14 dicembre 2019
Dietro le quinte del Teatro 5
Ahi, come sa di sale il Fellini dimenticato da tutti, e fuori luogo, fuori tempo, persino a Cinecittà che fu la sua vera casa d’artista, il suo involucro, la sua ossessione, e naturalmente la sua intera vita cinematografica che sognò girando un copione alla volta e camminando lungo i viali che ogni mattina attraversava, fino alla grande scatola del Teatro 5, dove allineava la sua riserva di ricordi, immaginazione e nuvole per trasformarla nei suoi film, dal primo all’ultimo, dallo Sceicco bianco a Intervista.
Eccolo laggiù il teatro dei teatri, tra i pini marittimi di verde smagliante, cresciuti come se ci fosse il mare. Nuovi ingranaggi televisivi fanno vivere i suoi 40 metri per 80, i suoi ponteggi, le sue botole, i suoi chilometri di cavi da mesi imprigionati tra le luci e le plastiche dell’ennesimo tele-show, All Together Now, replica involontaria dell’eterno Ginger e Fred che nell’anno 1985 profetizzò l’avvento delle nuove tavole di Hieronymus Bosch che avrebbero danzato nei tristi varietà televisivi di tutti gli anni a venire.
In quella scatola d’aria Fellini riprodusse il mondo. Infilò i cieli di via Veneto e il mare di Venezia, le spalle nude di Anita, le sigarette di Marcello, i volti funerei del Satyricon, la musica della vita, le lacrime dei clown, e persino le favolose fiancate del piroscafo Rex che salpano ogni notte nei sonni incantati dei bambini. Cambiò la luce di tutti i nostri sguardi, come fa il lampo nella camera oscura che dall’ombra di un negativo incide per sempre il volto e il controcampo della vita: il suo memorabile mistero di tempo che non ritorna.
Disse: «Da quando sono entrato in un teatro di posa non ne sono mai uscito, un anno è scivolato nell’altro, inavvertibilmente, come in un lunghissimo film». E poi: «A Cinecittà io non ci abito, ma ci vivo. Le mie esperienze, i miei viaggi, le mie amicizie incominciano e finiscono nei teatri di posa di Cinecittà». I quali lo accoglievano appena varcati i cancelli d’entrata, che lui chiamava “La Soglia”, dove un tale Pappalardo, il guardiano, lo salutava con la deferenza di un viatico: «Pappalardo portava una gran palandrana gialla lunga fino ai piedi con spalline militari, tasche, cordoni e un cappello con la visiera su cui c’era la scritta a lettere in rilievo: “Cinecittà"».
Tutto scomparso, oggi, dietro ai tornelli, dietro ai tendoni sigillati del Grande Fratello, che qui si gira dai suoi esordi, apoteosi della mediocrità di massa declinata in serie, l’opposto esatto del cinema, che è ( quasi) sempre un prototipo, a cominciare da quello del Maestro, che fu il più grande narratore per immagini del nostro ’900, sebbene fabbricasse sogni incollati a mano, illuminazioni, ricordi sempre inventati.
E meno male che esiste Roberto Mannoni, detto Robertino, un felliniano inventato da Fellini, suo capo di produzione per una ventina d’anni, suo amico fino all’ultimo giorno d’ospedale, che con ostinazione e solitudine ha conservato in tre stanze, sotto al padiglione centrale di Cinecittà, i fogli sparsi del Maestro, il suo cappello, la sciarpa rossa, il megafono, la scrivania, il divano, e centinaia dei suoi disegni, le lettere, i progetti di film mai realizzati, come Il Pinocchio, Le fiabe, L’inferno di Dante, il malaugurante Viaggio di Mastorna.
Oltre al suo fantastico archivio fotografico, le “facce da mostro”, che erano nani, giocolieri, contadini, ma anche bellissime ragazze eternizzate in un remoto bianco e nero, tutte archiviate con una didascalia scritta a penna, «Marini Valeria, sorriso buffo, corpo da applausi», o una giovane «Cucinotta, Maria Grazia, sensualissima» o mille altri sconosciuti come un tale «parrucchiere di Napoli», che Fellini volle per una inquadratura, mentre girava La voce della luna, e disse: Robertino, te lo ricordi, lo abbiamo visto tre giorni fa, hai il telefono? «Così l’ho chiamato – racconta oggi Mannoni – e il tipo mi ha detto ho una signora sotto al casco, che faccio? Lasciala lì e vieni subito. E quello l’ha fatto per davvero, ha piantato in asso la signora, finisca lei da sola, mi vuole Fellini! È saltato sulla macchina, è arrivato di corsa». Mannoni racconta tutto quello che non c’è più. I favolosi falegnami- artigiani- artisti che da un disegno «facevano un’intera strada di Rimini, l’armatura del cavallo di Casanova», gli attrezzisti «che trasformavano una trebbiatrice in una gigantesca cavalletta meccanica» e «diecimila sacchi di plastica nera, nel mare di Amarcord con cui allagare il Teatro 5».
Dal naufragio della dimenticanza, e con la tenacia del discepolo, ha salvato i manifesti originali dei suoi film, disegnati da Giuliano Geleng, la poltroncina del cinema Fulgor di Rimini, le forbici, la gomma con su scritto” per cancellare le grane”, la sua ultima Olivetti Lettera 35, l’elenco dei suoi film preferiti – Le Comiche di Chaplin, Gli uccelli di Hitchcock, Rashomon di Kurosawa, 2001 di Kubrik – migliaia di metri di pellicola con i suoi provini, le interviste, gli appunti filmati durante le preparazioni, gli scarti «un tesoro di immagini mai viste, riflessioni, racconti, che a metterci le mani, diventerebbe il più fantastico documentario sulla sua vita». E sul suo labirintico processo creativo che in una lettera d’archivio descriveva così: «Questo mio magico e involontario tracciare ghirigori, stendere appunti, fare pupazzetti che mi fissano da ogni angolo del foglio, schizzare anatomie femminili ipersessuali, ossessive, volti decrepiti di cardinali, tette e sederi e infiniti altri pastrocchi, costellati di numeri di telefono, indirizzi, conti delle tasse, orari di appuntamenti, insomma tutta questa paccottiglia grafica che farebbe il godimento di uno psichiatra forse è una specie di traccia, di filo, alla fine del quale mi trovo con le luci accese nel teatro di posa il primo giorno di lavorazione».
Il centenario sarà l’apoteosi di tutte le smemoratezze accumulate. Il Luce, la Cineteca di Bologna e quella nazionale, restaureranno tutti i suoi film per le retrospettive già prenotate dalle rassegne all’estero. Dante Ferretti, il suo ultimo scenografo, preparerà tre sale” immersive”, dove saranno ricostruiti gli arredi, le luci, i misteri delle sue inquadrature.
Rimarrà escluso anche stavolta questo eccentrico archivio, dove Mannoni ha salvato i pezzi sparsi del mondo reale di Fellini. Compreso il piccolissimo dettaglio dei suoi cento e passa pennarelli giapponesi Tombo coi quali disegnava e che ancora stanno sulla sua scrivania, «Non ne poteva fare a meno, glieli ordinavo con mesi di anticipo, mi diceva: Robertino se non me li trovi non disegno e se non disegno, addio film». E dunque addio alla vita e all’unico luogo che la rendeva sopportabile, il Teatro 5 che Fellini chiamava «la mia clinica». Scriveva: «Mi piace il suo silenzio da sanatorio, da ospizio nel quale lavorare calmo, senza voci». E ancora: «Ci passeggio come un archeologo che ha dimenticato il suo mestiere, non sa più cosa cerca tra quelle rovine di cartapesta, mentre il vento solleva palline di polistirolo». Robertino le ha raccolte e aspetta un narratore di specchi che le rimetta in fila.