La Lettura, 15 dicembre 2019
Gli scrittori con il pennello
Milano, gennaio 2015. Il professore e il don’t stop curator. Dopo l’intervista, Umberto Eco si alzò dal divano e prese una cartellina. Con una certa reticenza, ne estrasse alcuni fogli, che mostrò ad Hans Ulrich Obrist. Si trattava di schizzi nei quali aveva pre-figurato ambienti e personaggi de Il nome della rosa.
Un caso isolato? Nel 2016, Houellebecq occupa le sale del parigino Palais de Tokyo con una personale nella quale espone, insieme con video e installazioni, fotografie legate al paesaggio francese. 2019: Gallimard ha appena pubblicato, in un’edizione limitata, un portfolio con i disegni inediti di Kundera. Frammenti di una sorta di «festa dell’insignificanza», tracciati con una spontaneità sorvegliata e protetta, abitati da fantastiche comparse antropomorfe, segnate da colori accesi, ferme e, insieme, dinamiche, tenere e nostalgiche, amare e divertite: non poggiano sul suolo, ma volteggiano nel vuoto, si inseguono, si trasformano, sulle onde di una musicalità misteriosa. La medesima leggerezza ritorna nei paesaggi dipinti da Andrea De Carlo nelle tavole che corredano la nuova edizione di uno dei suoi più fortunati romanzi, Due di due (La nave di Teseo).
Indizi che ci spingono a riflettere su un fenomeno contemporaneo, le cui radici affondano in un dibattito critico ricostruito dallo storico dell’arte Rensselaer W. Lee in un importante libro del 1940 dedicato al concetto classico di ut pictura poësis. Pur differenti nei mezzi e nei modi espressivi, ricordava Lee, la «poesia muta» della pittura e la «pittura parlante» della poesia, sin dall’antichità, sono considerate come arti sorelle, che condividono segrete corrispondenze: al di là dei contenuti e dei soggetti trattati. Nate da un «unico parto», appaiono «quasi identiche nella loro natura fondamentale» e nella comune «nobiltà di concezione». Poste l’una accanto all’altra, affrontano gli stessi problemi; si pongono le stesse domande; si mettono reciprocamente alla prova; pronunciano i valori universali dell’esperienza umana; ricercano qualità delle visioni, vivezza delle descrizioni, sintesi tra ciò che percepisce l’occhio e ciò che pensa la mente. Entrambe si affidano al «Pegaso pericoloso della fantasia», conservando «nell’atto creativo un certo potere di giudizio, di discriminazione e di scelta», fino a delineare i contorni di un territorio aperto, dinamico. Tra i primi a essersi interrogato sulle stringenti affinità tra il timbro del colore e il suono della parola lirica, Leonardo: «La poesia pone le sue cose nelle immagini di lettere, mentre la pittura le pone tali e quali l’occhio le riceve come se fossero reali».
Nei secoli, tra il «verbale» e il «visivo» sono stati frequenti i passaggi, le interferenze e le ibridazioni. Si pensi ai tanti esercizi di riscrittura elaborati, tra gli altri, da Calvino, Berger, Dyer e Barnes, impegnati a riattivare le forme della pittura, donando arditi equivalenti verbali dei quadri. Si pensi anche ai dialoghi che DeLillo, Auster, Vila-Matas, Scarpa e Hustvedt intrattengono con l’arte, con esiti spesso inattesi (come è emerso in una mostra, Storylines, tenutasi al Guggenheim di New York nel 2015). Infine, si pensi a quei narratori che nei loro romanzi includono ricchi corredi iconografici: dal Sebald de Gli emigrati all’Eco de La misteriosa fiamma della regina Loana, al Siti di Autopsia dell’ossessione.
In questa drammaturgia di attraversamenti, un capitolo a sé – ancora poco indagato – è costituito dalle esperienze degli scrittori-pittori. Involontari eredi di Apollinaire, che nel 1916 inizia a dipingere. Tra i più originali e precoci teorici del Cubismo, il poeta francese compone alcuni calligrammi come spazi nei quali i versi vengono «piegati» in modo da fare affiorare figurazioni sintetiche. Inoltre, realizza disegni, inchiostri, pastelli, acquerelli. E, per illustrare Le Bestiaire, prepara un piccolo quaderno con schizzi ispirati ai bestiari medievali e rinascimentali: vi incontriamo animali e serpenti che si attorcigliano intorno ad alcuni rami. L’approdo: il progetto di un’antologia di ideogrammi in forma di disegni, il cui titolo sarebbe stato Et moi aussi je suis peintre.
«E anch’io sono un pittore» sembrano ripetere i tanti eredi contemporanei di Apollinaire, pur con inclinazioni e accenti diversi. Nella maggior parte dei casi, sono scrittori che realizzano quadri densi di assonanze con la propria poetica letteraria. Dunque, ecco Kipling, Zavattini, Pasolini, Levi, Longhi, Gatto, Lalla Romano e, in parte, Ben Jelloun, i quali, ancorati a un immaginario d’impronta realista, riprendono temi «famigliari, quotidiani, teneri», per aderire alla «lingua vivente della realtà» (per dirla con Pasolini). Ecco Maccari, Flaiano, Fortini, Miller, Kerouac, Grass, Testori, Fo, Faletti e Ruggero Savinio, che inventano personaggi alterati, violati, quasi emersi da un viaggio nelle memorie del sottosuolo. Ed ecco Vonnegut, Buzzati, Tadini, Bukowski, Ceronetti, Ferlinghetti e Scialoja: nelle loro improvvisazioni visionarie, motivi veristici vengono assunti, interiorizzati, trasfigurati. Ecco, poi, Montale e Berger, che tendono a «riattivare» sulla carta i modi propri della poesia, intesa come arte prodigiosa nel rimodulare le funzioni comunicative e informative del linguaggio, rendendole inoperose e aprendole a un nuovo, possibile uso. Infine, ecco Burroughs, Ionesco, Barthes, Levi e Kundera, autori di maquette, di dipinti e di disegni contraddistinti da un misto di controllo e di libertà: vi scopriamo silhouette mobili, agili, abilmente deformate. Le medesime continuità tra lavoro letterario ed esiti artistici si può cogliere nelle sculture in bilico tra Pop Art e kitsch di Coupland, nei collage vagamente surrealisti e neo-dadaisti di Pamuk, nelle combinatorie iconotestuali di Villa e Porta, nelle installazioni intermediali di Sanguineti, di Balestrini, di Vila-Matas e di Houellebecq.
In questa cartografia di voci eterogenee e distanti, sono ricorrenti alcune intenzioni. Siamo dinanzi a quelli che, con Roland Barthes, potremmo chiamare pittori di scritture, animati dalla convinzione secondo cui «nulla separa la scrittura (che si ritiene comunicativa) dalla pittura (che si ritiene espressiva)», poiché «entrambe sono fatte dello stesso tessuto, che forse è semplicemente, come nelle cosmogonie più moderne, la velocità».
Per questi artisti clandestini, dipingere, di volta in volta, può essere un divertissement o una necessità. Può rivelare, in alcuni scrittori, amore per gli sconfinamenti, gusto per le divagazioni, bisogno di guardare sé stessi nello specchio di un sistema espressivo e linguistico diverso. Ma può svelare anche ragioni più profonde. Talvolta, alcuni romanzieri e poeti – come Kundera e Houellebecq – sentono il bisogno di uscire dalla routine: pur se in maniera spesso occasionale, non senza un certo dilettantismo, vogliono portarsi oltre la parentesi protettiva del proprio mestiere, per abbandonarsi a una navigazione in mare aperto e sperimentare variazioni visive libere, non di rado prive di specifiche conoscenze tecniche e materiche, senza preoccuparsi dei giudizi dei critici, senza bisogno del consenso da parte dell’art system.
Altri «scrittori con il pennello», invece, considerano l’arte non come una pausa, né come un intrattenimento e neanche come lo spazio bianco di una partitura più ampia e complessa. Dipingere, disegnare, scolpire, fotografare o allestire un’installazione, per questi autori, non sono esperimenti sporadici, né atti minoritari, ma parti integranti di una specifica poetica, strumenti radicali di rabdomanzia sulle tracce della loro ossessiva ricerca. Le immagini sono trattate come ipotesi alternative di scrittura: una prosecuzione della scrittura con altri mezzi. Il fine: far coincidere pittura e parola, lasciando affiorare intersezioni, affinità.
In tal senso, sono illuminanti le proposte di alcune «anime doppie», che si muovono contemporaneamente nell’ambito della scrittura e in quello dell’arte: da Alberto e Ruggero Savinio a de Pisis, da Cocteau a Villa, da Buzzati a Tadini, da Scialoja a Berger, da Pamuk a Balestrini. Indiretti allievi di Apollinaire. E di William Blake, sofisticato poeta, potente pittore e prodigioso incisore, incurante di ogni gerarchia o distinzione tra arte e letteratura.