La Lettura, 15 dicembre 2019
Sul Colibrì di Veronesi
C ome si diventa un colibrì?
«Per la prima volta in un mio romanzo c’è una totale assenza di riferimenti, storie, aneddoti personali. Per questo credo che Marco Carrera sia il mio personaggio più riuscito», ha detto a «la Lettura» Sandro Veronesi parlando del protagonista del nuovo libro, punto d’arrivo di un percorso che fin dagli esordi ha messo in luce la sua «straordinaria naturalezza narrativa», come nel 1992 scrisse sul «Corriere» Luigi Baldacci parlando di Occhio per occhio, una non fiction novel contro la pena di morte pubblicata da Mondadori.
Costruito con una quantità di materiali diversi – lettere, sms, liste, dialoghi, debiti letterari (puntualmente assolti nel capitolo finale) – Il colibrì è la parabola della vita esemplare di un uomo imperfetto. Marco Carrera ha la stessa età dello scrittore, guarda il mondo dalla stessa altezza anagrafica, ha visto le stesse cose. «Ma a differenza di me che, come tutti quelli della mia generazione sono molto attratto dal cambiamento – dice Veronesi – Carrera, come l’uccellino che sbatte freneticamente le ali, sopporta una fatica immane per rimanere fermo, benché la sua vita sia stata piena di accadimenti». Di dolori indicibili addirittura, come la perdita di una figlia, che nella nostra lingua non ha un nome per essere definita. L’immobilità rende Carrera fratello, in modo opposto e speculare, di Pietro Paladini, il protagonista di Caos calmo (che torna anche in Terre rare), il libro che ha venduto 500 mila copie soltanto in Italia, ha vinto lo Strega nel 2006, è stato tradotto in 20 Paesi ed è diventato un film con Nanni Moretti. Chiuso dentro l’automobile davanti alla scuola della figlia o sulla panchina di fronte, Paladini cerca il proprio dolore per la morte della moglie – il Dolore vero – e intanto ausculta se stesso esercitando, nel suo stare fermo, una forza centripeta, capace di attrarre amici, colleghi, parenti e sconosciuti dentro l’abitacolo di quella macchina.
«Non posso continuare. Continuerò» è la citazione di Beckett che apre Caos calmo ed è anche l’exergo del Colibrì, di Venite venite B-52 e di altri romanzi dello scrittore, dominati da quell’eroismo antieroico che è prima di tutto un atteggiamento, una disposizione d’animo verso la vita, un’assunzione di responsabilità.
Entrare nel presente attraverso gli urti emotivi dei suoi protagonisti è il rischio che lo scrittore si è sempre accollato nei suoi libri. «Narratore per vocazione» lo aveva definito da subito Alberto Moravia individuando nella sua scrittura una «qualità piuttosto rara», quella di «sapere costruire, si direbbe quasi d’istinto, una storia», quando, nel 1990 era uscito Gli sfiorati, il romanzo in cui il «giovane» Veronesi (etichetta che gli è rimasta appiccicata per parecchi anni e contro cui si è trovato a combattere) fotografa, chiamando in causa spesso il lettore, una Roma degli anni Ottanta e i suoi giovani eroi, tardi adolescenti «schiumevoli», che hanno avuto tutto senza, forse, capire nulla.
Costruire una storia: è quello che Veronesi fa sempre, sia con i romanzi e i racconti – a cominciare dall’esordio di Per dove parte questo treno allegro (1988) – sia quando scrive reportage, anche i più lontani dalla forma giornalistica, come quelli raccolti in Live (1996), come il racconto della Belgrado dei primi anni Novanta, degli esami di maturità in un liceo tecnico o del Giro d’Italia. La figura del padre (e di riflesso del figlio) è stata il vistoso punto di partenza e l’approdo di una perlustrazione narrativa ancorata strettamente alla sua biografia di figlio e di padre. Una vena, quella autobiografica, che Veronesi ha sempre lasciato traboccare fertilizzando i testi e che rende tutti i suoi protagonisti in qualche modo fratelli.
La vulnerabilità, la paura sono variamente declinate, a volte con ironia, sempre con una esattezza che ne mitiga la disperazione: «Ho visto nascere cinque figli, ho imparato quanto sia complicato venire al mondo. La morte, invece, è una cosa semplice. Respiro. Respiro, respiro. Niente più respiro. Fine» scrisse nel 2017 su «la Lettura», in un potentissimo racconto dedicato alla morte della madre, che come quella del padre, ha avuto ricadute diverse e poetiche sulla sua narrativa (anche nel Colibrì). «Del corpo malato di tuo padre diverrai pastore, raserai il suo volto col Braun a quattro testine rotanti», scrive in Profezia, il racconto tutto in seconda persona, coniugato a un futuro già previsto e inevitabile, contenuto nella raccolta Baci scagliati altrove, dove il protagonista, Alessandro Veronesi, racconta l’esperienza di accompagnare il proprio padre nell’ultimo viaggio.
Su un legame di conflitto e fascinazione si basa Per dove parte questo treno allegro, romanzo di viaggio con un padre un po’ gaglioffo e un figlio sottomesso che partono per recuperare un tesoretto imboscato in Svizzera, mentre il protagonista di La forza del passato (che nel 2000 vinse sia il premio Viareggio che il Campiello) scopre che il genitore, morto da poco, non era l’impettito democristiano, amico intimo di Andreotti come lui credeva, ma una spia sovietica, un agente del Kgb. Rivelazioni ed eventi inaspettati, infingimenti e ombre rompono lo specchio della realtà insinuando dubbi e domande la cui risposta è ancora una volta una variazione di Beckett, «Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente». Anche qui si tratta di risalire il tempo della famiglia, proteggendo quell’illusione di felicità, che tiene a bada inquietudini e angosce.
«Preghiamo per lui e per tutte le navi in mare», scrive Veronesi all’inizio e alla fine del Colibrì in un’invocazione che rimanda, ancora una volta, a suo padre e che risponde all’interrogativo sul futuro, che chiede, di nuovo, un’assunzione di responsabilità e immagina un mondo, non consolatorio ma necessario, dove accoglienza e integrazione saranno parte di un Dna comune. Come la pelle di Miraijin, la nipote di Marco Carrera, che ha la pelle di colori diversi e da cui l’umanità potrà ricominciare.