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 2019  dicembre 15 Domenica calendario

Intervista a Fulvio Pietrangelini


La sua Disneyland è il mercato ortofrutticolo, la sua bestemmia (culinaria) è dietro il termine “rivisitazione”, il suo mantra è “l’imperfezione”, e il suo nome, Fulvio Pierangelini, è diventato un paradigma sottaciuto o esplicito per la maggior parte degli chef stellati e osannati in televisione.
Lui è il “maestro”.
La sua “passatina di ceci con gamberi” è uno dei piatti più copiati al mondo. Eppure in tv ci va pochissimo, (“non mi interessa”), tanto da diventare con gli anni una sorta di Keyser Söze dell’alta cucina, una presenza-assenza per chi appare e crede di essere, per chi arriva a pontificare “attraverso strumenti simili a quelli delle estetiste”. La sua sicurezza lo consente.
E in questo viaggiare in direzione ostinata e contraria, nel 2008 ha chiuso il suo ristorante (Il gambero rosso a San Vincenzo) quando gli appassionati, i curiosi o i parvenu sgomitavano per un tavolo, e ha iniziato una serie di consulenze, l’ultima ora a Roma, e nell’hotel dove lavora è una processione per assaggiare un suo piatto.
Sono passati anni dalla chiusura del suo ristorante.
Allora la gente sentenziava: “In questo mondo così veloce, tra sei mesi nessuno si ricorderà di te”.
E lei…
Ero conscio di perdere potere e visibilità, da numero uno tornavo un signor nessuno, ma non mi interessava, avevo deciso; comunque sono passati anni e ancora oggi mi fermano per parlarmi del cibo provato da me, delle emozioni suscitate; pensare che ho iniziato solo per necessità.
Quale?
Magari, e inconsciamente, per ottenere un bravo da mio padre, non me lo aveva mai detto; ma è una supposizione, perché in realtà non c’era uno scopo specifico.
Ha conosciuto tutti.
Ogni tanto accendo la televisione mi sento come Manuel Fantoni in Borotalco.
Cioé?
Molti di quelli che appaiono li conosco: il mio ristorante non era in una traiettoria semplice, però alla fine venivano a trovarmi, a partire dal primo anno di apertura, quando un giorno si presenta un signore: “Voglio il locale per due giorni e solo per me”. “Va bene”. Di quel gruppo la più sconosciuta era l’Infanta di Spagna, poi c’erano gli Agnelli e gli altri invitati al matrimonio di Noemi Cinzano.
Ha cucinato per i potenti del mondo.
L’altro giorno ero all’Hotel de Russie a Roma, entro e mi trovo davanti a un cordone di sicurezza; poi vedo Tony Blair, lo saluto, lui si gira e urla: “Fulvio!”.
Proprio Manuel Fantoni.
Sono stato il suo regalo di compleanno per i sessant’anni.
Ha spesso attaccato i blogger.
Vent’anni fa sostenevo che stanno alla gastronomia come un pedofilo all’amore.
Sobrio.
Allora per me Internet era una dittatura, non era democrazia, portata avanti da soggetti che una volta restavano a casa, chiusi in stanza con i loro brufoli, e il resto dell’umanità li definiva degli sfigati. Ora la situazione è migliorata.
È nato a Roma.
In via Teulada, accanto alla Rai, però da bambino raramente ho frequentato per due anni consecutivi la stessa classe e nello stesso paese: mio padre metteva i cavi per la Sirti, quindi la nostra vita era lo stato di avanzamento di papà.
Ha vissuto il ‘68 nella Capitale.
Uno choc: arrivavo da un paesino toscano dove si girava in bici, si andava al mare, una partita a pallone, si ascoltava il juke box anche se non avevo una lira, allora aspettavo i portatori sani di monetina, e invece all’improvviso mi ritrovo nel caos di Roma, dove tutto era veloce, urlato e violento.
Stordito.
Non solo, mio padre decise di iscrivermi a un Istituto tecnico industriale, pieno di geni di elettronica, il mio vicino di banco aveva inventato il sintetizzatore, un altro costruiva giradischi; io non capivo nulla.
Come ne è uscito?
La fortuna è stata quella di trovare un professore di elettronica con la sensibilità giusta per comprendere la mia condizione: per anni mi ha protetto nonostante non potessi ambire a più del 3.
Elettronica proprio zero.
Aprivo il libro e dopo pochi minuti mi lacrimavano gli occhi e non vedevo più nulla, e non sto scherzando né esagerando; sono arrivato ad accettare il mese mariano, tutte le mattine alle sei ero in chiesa, e solo per non studiare.
Manifestava?
Certo, però non capivo le reali motivazioni, e poi la scuola era di soli uomini, e volevo vedere le ragazze.
Hobby?
A casa non c’era la possibilità di sprecare tempo e denaro: a 16 anni, per Natale, vendevo giocattoli, mentre l’estate diventavo bagnino.
Anche lì per le donne.
Arrivai in quella spiaggia perché la vulgata popolare inneggiava alla presenza di francesi in topless, e per le donne avevo studiato la chitarra classica con risultati disastrosi.
Meglio la cucina.
Se non sei bravo con la musica, i fornelli sono l’altra metà del cielo.
Quelle donne erano in topless?
Neanche una.
La cucina è potere?
Solo se riesci a realizzarne una in grado di suscitare emozioni forti; ma oggi i parametri sono differenti, i riferimenti sono più televisivi, spesso i cuochi sono portati ad avere più successo per i riflettori che per i fornelli.
“Cuoco”, non chef.
Chef significa “capo”.
I suoi colleghi ci tengono.
Petrolini rispondeva: “Io non ci tengo né ci tesi mai…”; a quel tempo per mantenere il Gambero rosso ero obbligato al secondo lavoro.
Eppure era iper stellato.
Se i locali vengono gestiti in maniera severa, e sono decentrati, quasi vivono con l’autosufficienza.
Addirittura.
L’unica macchina nuova l’ho acquistata quando mi hanno ingaggiato per due consulenze
Quali?
Se va al supermercato e vede i Bonroll o l’hamburger di prosciutto, arrivano da me. All’epoca non volevo che uscisse il mio nome, e utilizzavo il mio giorno di riposo per andare in macchina nelle Marche, chiudermi in fabbrica, tornare a casa entro mezzanotte, dormire poche ore e poi la mattina facevo la spesa.
Più semplice la tv.
All’inizio ci sono andato, ho smesso quando è partita l’infornata generale.
Da lei lo spaghetto al pomodoro costava come quello all’aragosta.
È stata una provocazione di una settimana: volevo raccontare che la sfida non è solo gastronomica.
Traduciamo.
È come andare da un grande ortopedico e chiedergli di tagliare le unghie; lui magari accetta, ma dietro un lauto pagamento.
Ritraduciamo.
La sfida non è solo “è buono” o “non è buono”, la sfida tocca un aspetto emotivo forte, tocca i ricordi di ognuno, sollecita delle reazioni.
Un suo collega, Bruno Barbieri, ha spiegato: “Se mi tolgono una stella vado dallo psicologo”.
Probabilmente è vero.
E lei?
Mai avuto il cruccio, ho lavorato per me stesso.
La chimica è molto presente nella cucine?
È assente nei ristoranti dove lavoro io e probabilmente in altri otto; la chimica facilita i tempi ed evita l’errore: quando uno vede una goccia di salsa che resta lì fedele nei secoli, c’è un problema; la mia sarà più sgarbata ma è frutto solo della sua essenza.
Cosa la colpisce?
L’imprecisione. Sa qual è il capolavoro di Michelangelo? Non La Pietà scolpita quando aveva 25 anni, ma la Pietà Rondanini realizzata quando ne aveva quasi novanta, tutta sbozzata.
Perché?
L’imprecisione è spesso frutto di una ricerca maniacale; significa coraggio.
Altro che massificazione.
(apre un book fotografico e lo sfoglia con fastidio) Questi piatti sono uguali in tutto il mondo: c’è la cialdina, la fogliolina…
Chi lavora con lei la teme?
Non lo so, domandi a loro.
Sicuro?
Non ho mai sentito come prioritario l’insegnamento o la trasmissione delle mie idee, mentre ultimamente mi dedico, e forse questo è il primo segno delle vecchiaia; e sì, è vero, a volte li tratto male, e al confronto quello che uno vede a Master chef è un regalo.
Lancia i piatti…
Non sono così stupido. Utilizzo le parole.
Qual è l’articolo 1 della Costituzione gastronomica di Pierangelini?
La pari dignità degli ingredienti: patata e tartufo differiscono solo per l’artificio commerciale.
Non ama i talent di cucina.
Alcuni sono immorali, sono un grande fratello, e quando sento “sei fuori” provo fastidio fisico, non si possono trattare così le persone.
A lei capita.
Il percorso è differente: io sottolineo l’errore, gli autori dei programmi puntano allo show.
Va mai via da un ristorante?
No, mi siedo a tavola sereno, senza ansia o velleità.
Quando la riconoscono?
Oggi capita di raro; un paio di anni fa, in Sardegna, il cameriere mi ha spiegato alla lettera la passatina di ceci con gamberi.
E lei?
Ho risposto: “Deve essere un piatto splendido, ma preferisco un po’ di bottarga”.
I riflettori quanto le interessano?
Molto, adoro la televisione, mi diverto quando mi truccano, mi imbellettano, ma non a tutti i costi.
Ha spesso alluso al suo ego.
Per ridere.
Non solo per ridere.
Chiunque affronta un lavoro come il mio lo deve avere evidente.
(entrano due persone, lo vedono e s’inchinano)
Ha dichiarato: “Non ricordo il 99 per cento di quello che ho realizzato”.
Il professor Rodotà mi domandava di un’astice mangiato da me, e non sapevo cosa rispondere.
Un suo fan.
Mi ha difeso contro tutti, compreso Prodi.
Cioé?
Per un G7 è stato ingaggiato un catering straniero, e lui ha scritto: “Potevate chiamare i migliori d’Italia, compreso Pierangelini”, e poi ha aggiunto altri nomi di cuochi, altrimenti lo avrebbero impallinato. Risposta di Prodi: “Magari sarebbe costato troppo”. E Rodotà: “No, gratis; piuttosto mi mostri quanto ha speso”.
E poi…
Prodi una volta mi ha chiamato a Palazzo Chigi, però mi ha detto cose orrende.
Ha mangiato male?
No, ha definito il mio carattere di “merda”, e ha aggiunto “sei il più bravo di tutti, e qui non sei a Palazzo Chigi ma a casa tua”.
Dote nascosta?
So far ridere anche se non ci crede nessuno.
Una necessità.
Cucinare.
Quando ha intuito di avere un dono?
Non lo so, non mi sono mai soffermato sul presente; ho capito che ogni volta che cucinavo, a partire da casa, piaceva; e questo è un lavoro di coerenza.
Sport da ragazzo.
Sono stato un campione di karate, un’arte perfetta per acquisire sicurezza in se stessi e arrivare al punto di non cadere nella tentazione di stupide risse.
I suoi genitori si sono mai preoccupati per lei?
No, alla fine il mio lo portavo a casa, giusto in prima elementare non volevo andare a scuola e mamma restava tutto il tempo seduta su una panchina fuori dall’istituto. Così la vedevo.
Come in “Caos calmo”.
Veronesi mi cita nel suo ultimo libro, ma sono finito in vari romanzi.
In questi anni come l’hanno definita?
Mi sono beccato i peggiori epiteti: arrogante, presuntuoso, antipatico, e in parte è stato un modo di difendermi, e poi chi se ne frega.
Chi è il cuoco?
Noi siamo gli unici artigiani che entrano nelle persone con il proprio lavoro, ed è una grande responsabilità, e a volte suscitiamo emozioni, altrimenti sarebbe un po’ triste pensare che tutto il nostro lavoro termina in una fogna.
Va ancora al mercato?
È la mia Disneyland, lì mi innamoro di un pomodoro, di una triglia, accarezzo una rapa, e se non lo fai non potrai mai cucinare.
Chi è lei?
Uno che va a un convegno a Copenaghen e lì come musica in sottofondo mette A muso duro di Bertoli.
(E inizia a canticchiarla: “Un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato, e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”)