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 2019  dicembre 15 Domenica calendario

Intervista a Gianni Rivera per i 120 anni del Milan


Il più grande giocatore italiano di tutti i tempi, la poesia fatta calcio, l’anticonformismo come scelta di vita. Gianni Rivera è stato il simbolo dei formidabili anni Sessanta, il primo Pallone d’Oro italiano, Italia e Germania quattro a tre. «Nessuno quanto lui ha fatto titolo e cassetta, scatenato applausi e fischi, dato la stura a polemiche, esca a pettegolezzi» scriveva Roberto Gervaso. Ha combattuto contro arbitri, poteri forti, critica. É stato calcio, spettacolo, letteratura persino parabola divina nel cinema di Diego Abatantuono: «Gianni Rivera, ciapp’ questo pallone e vai in giro per il mondo a insegnare il giuoco del calcio...». A 76 anni portati da dio (appunto...), non ha ancora smesso di stupire. Ha appena preso il patentino di allenatore. E dire Rivera vuol dire ancora dire Milan.
Rivera, cominciamo dall’inizio: arriva al Milan e va in campo subito con Juan Alberto Schiaffino, il Messi degli anni ’50.
«Giocai con Schiaffino addirittura prima di debuttare in serie A con l’Alessandria. Non avevo ancora 16 anni ed era il mio provino al Milan. Alla fine lui e Liedholm andarono da Gipo Viani a dire di prendermi. E Viani disse: tranquilli, già fatto»
Primo campionato: il suo capitano è Nils Liedholm.
«Fu il mio primo e il suo ultimo. E il mio ultimo fu con lui in panchina quando conquistammo la Stella. Nils, con Nordhal e Gren, ha cambiato la Storia: il Milan diventò il Milan quando arrivarono loro tre».
La storia si ripete: anche Franco Baresi comincia quando Rivera finisce. Sembra un testimone che passa di mano in mano.
«All’inizio mi dava del lei, c’è voluto un po’ di tempo prima di passare al tu. La maglia di libero di solito finiva sulle spalle del difensore più esperto. Lui a 18 anni era già il libero di una squadra che vinceva il campionato. Ho capito subito di che pasta fosse fatto».
C’è un gol segnato con il Milan che ama più di altri?
«Il primo. Un pallonetto in corsa all’incrocio appena dentro l’area di rigore contro la Juventus a Torino. Avevo 17 anni e tre mesi».
Risultato?
«Quattro a tre per noi. Un risultato che mi porta sempre bene».
Con Pierino Prati crea una delle coppie più micidiali della Storia
«Pensare che non dovevamo neanche giocare insieme. L’anno dello scudetto del Sessantotto lo ripescarono da un prestito ed entrò in prima squadra solo a novembre. Quando Rocco lo vide, vestito da yè-yè disse: ma abbiamo preso un calciatore o un cantante rock?».
E Fabio Capello? Ereditò il suo 10 ed è diventato l’allenatore che ha vinto di più.
«Sono stato io da vicepresidente a convincerlo a fare il corso allenatori che Allodi aveva appena creato. Fabio studiava tutta la settimana a Coverciano e poi tornava a Milano ad allenare i giovani. Si capiva subito che aveva le qualità. Ho sbagliato a non fare il corso anch’io, ma avevo altre responsabilità».
Visto che è appena diventato mister non è mai troppo tardi
«Infatti. Ho aspettato un po’ ma alla fine il corso l’ho fatto anch’io».
Che tipo di allenatore è Rivera?
«Rocco scherzando diceva a Cudicini: lo schema xe questo, ti Fabio te va in porta, tuti i altri fora... Sono un allenatore che mette la tecnica al servizio dell’agonismo, un allenatore che non vuol fare il protagonista. I protagonisti sono i giocatori: sono loro che vanno in campo».
Lei denunciò il malcostume nel calcio quasi 50 anni fa. Disse: dispiace che gli sportivi pensino che il calcio sia una cosa seria
«I miei compagni erano convinti che il Milan fosse penalizzato dagli arbitri e dato che i dirigenti non aprivano bocca parlai io. Dissi che gli arbitri volevano farci perdere lo scudetto per farlo vincere alla Juve. E mi presi tre mesi di squalifica».
Come sarebbe andata la cosa se ci fosse stato il Var?
«Avremmo vinto almeno tre o quattro campionati di più».
Cosa è stato Nereo Rocco per Rivera
«È stato un secondo padre. Con lui cambiò il modo di fare spogliatoio: faceva la doccia con noi, ci raccontava della moglie, dei figli, come fossimo in famiglia. Era uno di noi pur essendo il nostro Paron».
Quanto varrebbe oggi Rivera?
«Direi una cifra proporzionata al suo talento».
Lei all’estero sarebbe andato a giocare?
«Mai pensato di giocare in una squadra diversa dal Milan. E quando cercarono di vendermi ad andare via fu invece il presidente».
Il Milan è stato il suo primo amore o è il suo unico amore?
«È stato ed è un grande amore».
Bedin, Furino: chi in campo l’ha fatta soffrire di più?
«Io quando non giocavo bene».
I formidabili anni Sessanta quanto devono alla rivalità tra Rivera e Mazzola?
«Milano era la capitale del calcio, Milan e Inter vincevano dappertutto e io e Mazzola eravamo i capitani e le bandiere delle due squadre. Era normale che ci vedessero rivali anche se all’inizio la rivalità era con Corso. Non è vero poi che non potessimo giocare assieme in Nazionale. In realtà e io e Sandrino ci siamo sempre stimati e voluti bene».
Savicevic, Boban, Kakà. Chi le somigliava di più tra i suoi eredi?
«Più Pirlo degli altri anche che se lui poi ha arretrato il suo gioco».
Il suo 10 è stato anche sulle spalle di Gullit
«Magnifico campione anche se quando a vide la mia gigantografia nella sede del Milan disse: chi è? Eravamo opposti come caratteristiche ma puoi essere un grande senza per forza somigliare ad un altro».
E con chi le sarebbe piaciuto giocare di quelli arrivati dopo? Van Basten, Shevchenko, Ibrahimovic
«Penso che sarebbe piaciuto a loro giocare con me».
Che partita le manca?
«Nel 2003 il Milan batte la Juventus in finale a Manchester dopo aver eliminato l’Inter in semifinale. Mi sarebbe piaciuto esserci».
Da Rivera a Van Basten fino a Kakà, il Milan ha avuto 11 Palloni d’oro: manca qualcuno?
«Baresi e Maldini. Lo avrebbero meritato ma per i difensori è sempre stato complicato. A me successe il contrario: lo consegnarono a un portiere, Jascin, togliendolo a me, praticamente un premio alla carriera. Dissero: tanto Rivera è giovane, ne vincerà altri».
Quarant’anni fa vinse il Pallone d’Oro: fu il primo italiano.
«Si, ma allora era tutto più sobrio, non c’erano tutte le celebrazioni di oggi. Il senso però era lo stesso».
Una delle foto più belle della storia del Milan vede lei, Cesare Maldini e Baresi che scendono dall’aereo con la Coppa dei Campioni dopo la vittoria con lo Steaua Bucarest del 1989
«Ricordo la meraviglia del Camp Nou di Barcellona tutto colorato di rossonero: sembrava di giocare a San Siro. In quella foto c’erano i tre capitani che avevano portato il Milan in cima all’Europa. In quella foto c’era la Storia».
Quel Milan, il Milan di Sacchi, è stata votata dall’Uefa la squadra più forte di tutti i tempi.
«Quella squadra aveva la difesa della nazionale italiana e l’attacco della nazionale olandese. Poteva solo fare grandi cose».
Però cambiò la mentalità delle squadre italiane. Prima si andava all’estero solo per difendersi.
«Ma anche il mio Milan era così: aveva tre punte, Hamrin, Sormani e Prati. E io che ero il quarto. Anche se Rocco era uno dei padri noi non facevamo catenaccio».
Ma il Milan che cos’ha di diverso rispetto alle altre squadre?
«Proprio questo. La vocazione a governare sempre la partita, a giocare per dominare l’avversario, mai per speculare sul gioco altrui. Il bel gioco è sempre stata la missione del Milan».
Berlusconi è stato il Santiago Bernabeu del Milan?
«Ha salvato il Milan da una situazione difficile e lo ha portato in cima al mondo: le vittorie che ha conquistato parlano per lui».
Cosa succede al suo Milan?
«È di proprietà di una società di investimenti che prima o poi vorrà organizzarsi per cedere. Ma bisogna capire che è importante avere una proprietà perché ti dà certezze. Un presidente che vive in società sa quali sono i problemi, cosa bisogna fare. Un presidente presente non è come un presidente lontano».
La Juventus domina da anni, l’Inter è tornata in corsa per lo scudetto. E il Milan?
«Io sono convinto che il Milan sia una buona squadra e abbia dei buoni giovani però è la situazione della società che prima o poi deve essere risolta. Una squadra soffre una situazione di incertezza sul futuro».
Le squadre hanno bisogno di identità anche in un calcio che cambia?
«Il calcio è diventata una cosa diversa anche perché i giocatori oggi sono liberi di andare dove vogliono. Una volta noi eravamo di proprietà della società, adesso il giocatore è proprietario di se stesso, un’azienda dentro un’azienda. Con le nostre battaglie nel sindacato calciatori abbiamo combattuto per dare questa possibilità ai giocatori ma forse questo percorso non ha preso la strada che speravamo».
Tre cose fondamentali per creare una grande squadra.
«Una grande società, ben organizzata che sa quello che vuole e a cosa puntare. Poi grandi giocatori e anche chi sia capace di metterli in condizione di dare il massimo. Solo così possono arrivare i risultati».
Il Milan tornerà grande?
«Deve tornare grande. È la sua storia che glielo impone».
Si dice il Milan ai milanisti. Ma Rivera tornerebbe al Milan?
«Dipende. Se mi vogliono devono parlarmi. E se vogliono parlarmi sono qua. Per ora sono invitato alla festa dei 120 anni».
Ibrahimovic, cosa ne pensa?
«Se viene al Milan bisogna vedere in che condizioni fisiche è. Ha giocato in America e ha 38 anni, i ritorni sono sempre complicati. Io a 36 anni ho smesso di giocare».
Ma lei è in formissima: potrebbe giocare ancora adesso
«In effetti è quello che volevo fare. Ma non mi convocano più»