La Stampa, 15 dicembre 2019
Biografia di David Lynch
Sono pochi a ricordare che David Lynch deve a Mel Brooks la prima grande opportunità della sua carriera, ma lui ancora oggi esprime nei suoi confronti una riconoscenza sincera e profonda. All’epoca David aveva superato da poco i trent’anni, e si era messo in mostra con il visionario e inquietante Eraserhead – La mente che cancella, ma sarebbe rimasto un autore da circuito arthouse se Brooks non avesse avuto l’intuizione di fargli dirigere The Elephant Man, che divenne un grande successo internazionale. «Vedendo Eraserhead ho capito che aveva il talento di far piangere», racconta Brooks, e Lynch celebra la libertà che gli lasciò sul set: «Mi lasciò esercitare il final cut nonostante non lo avessi per contratto».
Nel modo in cui è riuscito a conquistare un cineasta così diverso ci sono molti elementi illuminanti per comprendere una personalità piena di talento, genialità e una misteriosa mescolanza di ingenuità e astuzia. La prima volta che l’ho incontrato venne a vedere a sorpresa una proiezione di 8 ½ che avevo organizzato all’Academy di Los Angeles: considera Fellini, con il quale condivide orgogliosamente il compleanno, il più grande regista di tutti i tempi, e quella sera fu lui a far partire gli applausi, continuando a battere le mani per assicurarsi che nessuno uscisse prima di averlo omaggiato come meritava. «L’ho conosciuto grazie a Isabella», mi raccontò, «ed è stata una delle emozioni più grandi della mia vita». Il riferimento è a Isabella Rossellini, con cui ha vissuto una grande storia d’amore nata con una gaffe: un amico comune li presentò, e lui, colpito dalla bellezza le disse: «Sembri la figlia di Ingrid Bergman».
Ha amato tante donne e ne ha sposate quattro. Ne parla poco, però, ed è restio a parlare della sua arte, perché si tratta di ciò a cui attribuisce maggiore importanza: meglio tenere queste cose per sé, avvolgendole in un alone di mistero. È nato a Missoula, una cittadina del Montana non troppo diversa da quella di Twin Peaks: «Case tutte uguali e giardini rasati perfettamente. Steccati dipinti di bianco, cieli azzurri e alberi di ciliegie… tutto perfetto, ma poi avvicinandoti a quegli alberi scoprivi che sul tronco c’erano migliaia di formiche rosse». Sembra già di vedere l’avvio di Velluto blu, con l’orecchio mozzato in mezzo al prato che è solo il preludio per una serie di mostruosità che smentiscono la superficie da paradiso terrestre.
Sin da bambino ha compreso che il male convive con il bene, e ha saputo esprimerlo combinando magistralmente l’highbrow e il lowbrow: «È il primo surrealista popolare», intuì Pauline Kael, e per spiegare il suo stile inconfondibile l’Oxford Dictionary ha redatto la voce «lynchiano». È ammirato e riverito dai più sofisticati intellettuali di ogni parte del mondo, ma i suoi riferimenti sono legati alla cultura popolare. Di Billy Wilder, l’altro grande maestro che venera, Lynch predilige Viale del tramonto: Gordon Cole, protagonista di Twin Peaks, è un personaggio di quel film, che lui descrive come «un horror: un uomo entra in un castello dove abita una creatura diabolica e non ne esce vivo».
Le sue letture dei classici sono sempre folgoranti, e il modo in cui parla di cinema, gesticolando con le mani, è contagioso, guai però a chiedergli di svelare i misteri dei suoi film: risponde con fastidio, come se qualcuno volesse privare del fascino qualcosa di bello. Le sue storie, ambientate in un mondo polarizzato tra il male e il bene estremi, seguono il flusso dell’inconscio, e David prova lo stesso disagio nei confronti di chi legge i suoi film psicoanaliticamente: «La psicoanalisi uccide il mistero».
A volte hai l’impressione che si lasci prendere dall’istinto e che la volontà di stupire superi una concezione armonica, ma i risultati sono sempre formidabili: David segue il linguaggio dei sogni e, ancora di più, degli incubi, ma tratta l’angoscia e la morbosità con leggerezza, persino con ironia. Come accade ripetutamente in Cuore selvaggio, pieno di riferimenti popolari quali Il mago di Oz. E ancora di più in Strade perdute: poche scene hanno generato il terrore come quella in cui il protagonista Jeff Daniels entra in una stanza avvolta in un buio impossibile, e poi incontra un personaggio diabolico, interpretato da Robert Blake, il quale gli dice che in quello stesso momento si trova anche all’interno del suo appartamento. Daniels rimane sconcertato, ma Blake, che nella vita reale è andato in prigione per aver ucciso la propria moglie, lo invita a chiamarlo al telefono, e sente dalla cornetta che l’uomo è anche lì.
Nei suoi film la realtà più cruda si mescola alla dimensione onirica, comunicando sempre il senso ultimo di un’esistenza segnata dalla solitudine e la violenza. È qualcosa che è nata quando riuscì ad affittare assieme alla prima moglie Peggy un’enorme dimora in un’area desolata di Philadelphia: «Ci sembrò un grande affare, ma vivevamo nel terrore: un ragazzino venne ucciso davanti al nostro portone, i ladri entrarono due volte in casa e una volta qualcuno sparò alle nostre finestre. Senza parlare del furto della macchina. Eravamo circondati da sporcizia, violenza e paura: un’esperienza a contatto con il pericolo estremo, che mi ha segnato per tutta la vita». Un mondo diversissimo rispetto a quello in cui vive oggi a Los Angeles, in un conglomerato di tre case che gli amici chiamano scherzosamente Lynchville, nel quale conduce un’esistenza da abitudinario: per otto anni di seguito ha mangiato ogni giorno da Bob Big’s Boy.
Poche pellicole hanno saputo raccontare il senso di vuoto spettrale che può segnare la vita in quella città come Mulholland Drive, e nello stesso tempo l’anima di personaggi in pena: due donne piangono mentre assistono all’esecuzione di Llorando da parte di una cantante in un teatro deserto. Poco dopo, un cowboy albino parla in maniera criptica e minacciosa a un regista in crisi, mentre l’unica lampadina che illumina la scena sembra sul punto di spegnersi: incubi che incidono sulle viscere dello spettatore soprattutto quando non sono del tutto comprensibili. Fa impressione pensare a tutto ciò quando lo incontri di persona, perché David è una persona gentile e sorridente, che ha scelto il disincanto sul cinismo. A volte ti sembra persino disarmato, ed è la sua arte il mondo in cui è riuscito a trovare la propria armonia.
Da anni dedica alcune ore al giorno alla meditazione trascendentale: non fa eccezione per nessuno, e ne è diventato un apostolo appassionato. Oggi sembra una persona completamente diversa rispetto al bambino educato secondo i dettami della religione presbiteriana: il padre Donald era uno scienziato che lo convinse a entrare nei boy scout, esperienza che lo ha portato ad assistere alla cerimonia inaugurale del presidente Kennedy. Non ha voluto mai occuparsi di politica, ma i suoi fan sono costantemente sconcertati per le sue rare prese di posizioni pubbliche: apprezza Sanders, e prima di lui Obama, ma è stato un simpatizzante di Reagan «per come ha reso piccolo il governo», e pensa che nessun leader della sinistra sappia contrastare in maniera intelligente Trump, il quale «forse è inadeguato, ma sta aprendo la porta agli outsider».
Nell’intimo è un libertario, ed è sintomatico che, da fumatore accanito, si sia allontanato dai democratici quando hanno promosso una campagna contro l’industria del tabacco. Ed è orgogliosamente americano, anche se è stato attirato dalla cultura e dall’arte europea sin da piccolo: dopo il liceo programmò un viaggio di tre anni in Europa che si restrinse a due settimane quando scoprì di non poter studiare l’arte di Oskar Kokoschka, sua altra grande passione. E ha avuto costantemente a che fare con interlocutori europei: si deve a Dino De Laurentiis se realizzò Velluto blu, ottenendo il final cut dopo che aveva rinunciato ad averlo in Dune. I due sono stati protagonisti di scontri memorabili, ma oggi David ne parla con affetto e ricorda che lo preferì a George Lucas, che lo aveva chiamato a dirigere Il ritorno dello Jedi.
Da quando è diventato un autore di culto si è espresso anche nei fumetti e nel design, passando per la pittura, la letteratura, la pubblicità e anche la musica. Il comune denominatore è la ricerca costante e febbrile di qualcosa che superi l’ovvietà della superficie, e non è certo un caso che una delle sue canzoni preferite sia In Dreams di Roy Orbison. Ma a conoscerlo di persona capisci che nulla svela il suo anelito più profondo come il magnifico Una storia semplice: la quiete della vicenda, e il senso di redenzione crepuscolare, spiazzarono anche i fan più accaniti e David ride sempre quando ricorda che all’uscita di una proiezione sentì una signora che diceva: «Ma non è strano che ci siano due registi che si chiamano entrambi David Lynch?». Ci volle tempo prima che la pellicola venisse apprezzata per la sua profonda, serena bellezza: raccontando una vicenda di abnegazione e perdono, David arriva a mettere in discussione il proprio stile, il proprio mondo, e forse sé stesso.