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 2019  dicembre 15 Domenica calendario

Il ritorno di Ennio Flaiano

Non molto tempo fa, l’editore Adelphi ha pubblicato L’occhiale indiscreto di Ennio Flaiano (1910 1972, a cura di Anna Longoni, euro 15): uno scrittore oggi a torto dimenticato. Non era un giornalista, come molti credono: era un vero scrittore, che, per tutta la vita, chissà per quale ragione, si mascherò da giornalista: gli piaceva nascondersi, cambiare nome, fingere di essere un altro, far credere di essere uno sceneggiatore, come se fosse stato soltanto l’ombra di Federico Fellini. Era molto spiritoso e intelligente – ma a lui non importava nulla né dello spirito né dell’intelligenza, perché la sua unica passione era il culto dell’immane, enorme, esagerata stupidità, in cui vedeva qualcosa di straordinario.
Per Flaiano, non esisteva nulla di più bello ed affascinante della stupidità; e lui amava ed inseguiva e coltivava gli stupidi, i cretini, gli idioti – la sublime vetta del mondo. Flaiano ne era persuaso ed ossessionato. La stupidità gli bastava – come la scultura bastava a Canova, il romanzo storico ad Alessandro Manzoni, le storie terrificanti a Poe, il romanzo pittoresco a Dickens, la poesia a Emily Dickinson, la filosofia ad Hegel. I giornali di ieri e di oggi erano stupidi: il fascismo era stupido; Galeazzo Ciano e la moglie erano stupidi; e Mussolini era sovranamente stupido – amava la musica, carezzava i leoni, da Palazzo Venezia salutava colla mano levata gli italiani e il mondo e Hitler; e tirava di scherma.
Mussolini scriveva libri: a palazzo Venezia si esibiva colla mascella follemente congestionata e protesa, amava gli aggettivi pomposi, scriveva 24 articoli al giorno sui giornali fascisti. Portava i gambali, la tuba, il feltro nero, la feluca, la bombetta, il nero fez degli Arditi, l’elmetto di cartone e qualche volta – massima felicità – la testa rapata. Provava una passione incestuosa per la figlia. A volte pensava, come Oscar Wilde, che «far parte della società è veramente una noia, ma non farne parte è una tragedia». Da giovane cominciò a possedere le donne, e continuò, continuò, continuò, come se non ci fosse nulla di più sacro. I fascisti erano eroici, eppure avevano moltissima paura, perché si nascondevano in ogni chiassetto e fogna e magazzino e soffitta, come raccontò meravigliosamente Carlo Emilio Gadda in Eros e Priapo.
La capitale del fascismo erano i colli fatali di Roma – sebbene Roma sia la città più mite e amabile e accondiscendente della terra – senza nulla di fatale e di eroico. Esco di casa, faccio cento passi fino a piazza Ungheria o a Villa Borghese o a via Veneto, accompagnato dal mio portiere portoghese al quale racconto tutta la storia del Portogallo, che lui venera. Sono lieto, lietissimo. Come non ero mentre passeggiavo sotto i portici di Torino, tra le caldarrostaie centenarie. Ricordo Federico Fellini: quando usciva di casa e si inoltrava radiosamente per Piazza del Popolo. La grande piazza gli allargava il petto, e gli allungava il passo. Ennio Flaiano mi è molto simpatico, com’era simpaticissimo a Federico Fellini, quando sceneggiavano insieme La dolce vita. Allora io ero molto giovane, mentre Fellini e Flaiano avevano più anni di me. Io li guardavo dal basso, col lontano ricordo dei miei vestiti di balilla alpino. Flaiano racconta moltissime cose: la folle paura dei fascisti il 25 luglio 1943, la fuga di Vittorio Emanuele III e di Badoglio da Pescara fino a Brindisi. Quando arrivò Anthony Eden, il ministro degli Esteri inglese, il Popolo d’Italia scrisse: «si ricordi di non nominarlo troppo sovente». «Quando l’America soccorse l’Inghilterra, i giornali italiani erano pregati di nominare Eden senza ricordare i suoi titoli nobiliari». Quanto a quelli di Churchill, obeso e col sigaro, era una vera frana. Se i nostri soldati morivano di fame e di gelo in Albania, «si rinnovava tassativamente il divieto di parlare “dei Caduti in guerra"».
Se il 30 dicembre del 1939 a Roma cadeva la neve, si doveva «impostare il giornale di mezzogiorno sull’avvenimento della giornata, cioè la neve, dedicando a questo importante avvenimento fotografie, articoli di colore, vibranti commenti fascisti». Se Hitler era uscito salvo da due attentati, «s’imponeva di non tirare in ballo la divina Provvidenza a questo proposito». E ancora: «Non bisogna occuparsi dell’ambasciatore sovietico a Tokio»: «bisogna ignorare le mene del Conte Sforza in America»; non bisogna occuparsi degli inutili e retorici discorsi di Churchill: non bisogna occuparsi di Francisco Franco: non bisogna pubblicare le fotografie di Pavolini e di Goebbels, che si danno la mano al Festival cinematografico di Venezia; e, sopratutto, non bisogna ricordare la figura di Mazzini nel Risorgimento; né parlare di formaggio di grana, perché abbatterebbe gravemente il morale delle truppe italiane in Albania.
Un giorno, chissà perché, un tale gridò: «Abbasso Mussolini!»: urlò ad intervallo, rivolto ai passanti. Allora, gridò un altro, «Con Mussolini è finita, viva la libertà!». Ma i passanti non osavano aprir bocca. Avevano paura del duce, che stava nascosto chissà dove. Gli agenti, calmi, a bassa voce, con l’aria di chi confida un segreto, che pesa sul cuore, dissero: «Era un gran puzzone!». In un caffè, alcuni clienti urlavano: «Abbasso Mussolini», rivolti ai passanti. Automaticamente, con un sorriso perduto sul volto, qualcuno alzava per sbaglio il braccio nel saluto romano: «Abbasso Mussolini, è finita, viva la libertà». I passanti non osavano contraddire. Infine, due agenti fermarono il corteo. «Smettetela, oppure vi portiamo tutti quanti dentro». Il piccolo corteo fascista- antifascista scoppiò in un tumulto di risate. Uno gridò: «Portiamo dentro gli agenti». Gli agenti non sapevano cosa fare. Allora, con calma, le persone del corteo spiegarono cosa era successo: «Mussolini sta rinchiuso al Gran Sasso. Nessuno lo tirerà più fuori di lì». Gli agenti rimasero dubbiosi: «È proprio vero?» disse un agente. «Parola d’onore!», disse un altro. «Parola d’onore», tutti risposero in coro. Alla fine il volto degli agenti si distese. Quello che aveva fatto la domanda si guardò intorno, poi calmo, a bassa voce, disse: «Era un gran lavativo».
In un caffè di Piazza del Popolo, alcuni clienti litigarono con dei fascisti. Dapprima ci fu qualche insulto. Poi cominciarono a volare sedie, bottiglie, bicchieri, quadri; e un Console della milizia venne schiacciato e calpestato nella confusione. Ma il bello è che delle cosiddette dimissioni di Mussolini nessuno sapeva niente, né del maresciallo Badoglio. I fascisti fuggirono. Il Console della milizia, livido in viso, a un tale che lo insultava, ripeté più volte: «Intanto datemi del Voi». Tutta l’Italia stava crollando e precipitando nel vuoto, e il Console pensava soltanto al Voi promulgato da Mussolini e dalla milizia.
Ne L’occhiale indiscreto Flaiano non smette mai di raccontare, di chiacchierare, di blaterare. Non ha fine, parla di tutto. L’amore per i titoli e le distinzioni onorifiche: uno poteva essere cavaliere di un ordine straniero, per esempio ungherese. Flaiano parla dei giornali sportivi, delle gite in auto la domenica, delle mode stranamente allegre delle donne (la secolare schiavitù delle donne), della vita a Parigi. Le vetrine, cogli abiti fatti, in tutti i negozi di tutte le città di provincia italiane: i saggi che stavano rinchiusi a casa per prudenza: uno sciopero di tecnici a Fiumicino: il giro di Roma by night coi monumenti tutti illuminati di luce gialla; un campo di nudisti che si esibiva sulla spiaggia di Fiumicino; Wilma Montesi, e Piero Montesi e Piero Piccioni, e Alida Valli, e Leone Piccioni, e il marchese Montagna.
Il libro di Flaiano è posseduto da una passione insaziabile. Era arrivato da Pescara a 12 anni: nel 1932, a 23 anni, cominciò la sua attività di giornalista. Recensì Figli e amanti di David H. Lawrence e Quarantotti Gambini: subì l’influenza di Mario Pannunzio. Frequentò Enzo Forcella; scrisse su Oggi, Documento, Mondo, Il corriere della sera, L’espresso, Il risorgimento liberale, Omnibus.
Flaiano non smise mai di scrivere: sempre, continuamente, arditamente. Era spiritoso, insaziabile, verboso, famelico. Tutto gli riusciva sovranamente comico. All’improvviso il 25 luglio 1943 cadde il fascismo, Mussolini venne portato al Gran Sasso. Hitler lo fece rapire dalle sue truppe al Lago di Garda insieme a Claretta Petacci. Badoglio diventò Presidente del consiglio: poi Ivanoe Bonomi; poi Mussolini e la Petacci vennero appesi per i piedi in una piazza di Milano. Ma il comico italiano non scomparve. Eccolo qui, ancora, dopo quasi 100 anni. Ecco ridicolissime presenze pubbliche e politiche, e tutto lascia credere che con qualche minima eccezione la vita italiana resterà comica fino al 2200, perché del comico noi italiani non possiamo fare a meno. È cosa nostra: nostro possesso. Siamo comici nel cervello, nel cuore: in automobile, in bicicletta, dappertutto, dovunque, senza limiti possibili. Forse non è male, che la farsa duri fino alla fine dei tempi, quando, chiassosa e buffonesca, impererà l’Apocalisse.