la Repubblica, 15 dicembre 2019
Le dieci mosse che hanno portato la Popolare di Bari al crac
Questa è la storia di un crac in dieci mosse. Quanti i suoi protagonisti. Dieci. Che, come i Piccoli Indiani di Agatha Christie, non sopravvivono all’architettura che credevano incrollabile perché “too big to fail”, troppo grande per fallire. Dieci. Quanti, a diverso titolo, ne hanno iscritti al registro degli indagati per falso in bilancio, false comunicazioni, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza, estorsione, i magistrati che, tre anni fa, hanno avuto il coraggio di sfidare la vischiosità del Sistema di cui la Popolare di Bari è stata ed è il perno, il Procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e i sostituti Federico Perrone Capano e Lidia Giorgio. Sono Marco Jacobini, 73 anni, il padre padrone della banca, presidente del suo consiglio di amministrazione e amministratore di fatto. I suoi figli Gianluca, 42 anni, vicedirettore generale dal 2011 al 2015, quindi condirettore e direttore generale di fatto, e Luigi, 46 anni, dal 2011 vicedirettore generale. Vincenzo De Bustis Figarola, 69 anni, già direttore generale ed amministratore delegato, banchiere preceduto dalla fama di essere un highlander uscito sempre illeso da storie complicate, in Banca 121, Mps e Deutsche Bank. Che, ancora il 18 luglio scorso, dopo la pubblicazione di un’inchiesta in due puntate di Repubblica sul suo gigante dai piedi di argilla, ci querelava lamentando la «palese falsità di notizie gravemente lesive della sua immagine». Elia Circelli, 56 anni, responsabile della funzione bilancio e direttore delle operazioni della banca dal 2011. Vincenzo Marella, 53 anni, responsabile dell’internal audit. Roberto Pirola, 70 anni, ex presidente del collegio sindacale. Giorgio Papa, 63 anni, amministratore delegato dal 2015. Grazia Conti, 44 anni, responsabile della funzione compliance dal 2014 al 2016. Alberto Longo, 61 anni, presidente del collegio sindacale dal 2018.
La verità sulla Popolare di Bari non si doveva conoscere. E, a Repubblica, con la querela era arrivata anche una diffida a desistere dal suo giornalismo. A «non reiterare le condotte diffamatorie» pena un risarcimento «per una somma non inferiore a 100 milioni di euro». Più o meno un decimo del buco che, ora, saranno chiamati a tamponare i contribuenti italiani per conto dei dieci indagati. E delle loro dieci mosse. Eccole, così come è possibile ricostruire da un’analisi dei bilanci, dagli atti di Consob e di Banca d’Italia e dai primi esiti del lavoro della Guardia di Finanza.
1. 2014. Tercas, la madre del Grande Rosso
Tra il 2014 e il 2015, con la benedizione della Banca d’Italia, la Popolare acquista la banca abruzzese Tercas per poco più di 300 milioni. Per farlo, contestualmente all’acquisizione, procede a un aumento di capitale attraverso la collocazione sul mercato di azioni e di obbligazioni subordinate dal rendimento spettacolare (6,5% annuo). La clientela di riferimento sono imprenditori e, soprattutto, piccoli risparmiatori, nonostante l’alto margine di rischio dei titoli. Le azioni, in quel momento, hanno un valore medio di mercato di 9,53 euro. Tercas, in realtà, non è un affare né per la Popolare, né per i suoi azionisti, né per i risparmiatori. Che ne pagheranno il costo.
2. 2014. Il primo falso in bilancio
Quanto Tercas non sia un affare è evidente assai presto. E, corre il 2015, la Banca si trova di fronte perdite per circa 250 milioni di euro che decide di occultare. Tra febbraio e aprile di quell’anno, il Cda prima, l’assemblea dei soci poi, cucinano dunque il bilancio dell’anno precedente omettendo di svalutare gli avviamenti di alcune fusioni. Ci sono, tra le altre, la Nuova banca Mediterranea, la Popolare di Calabria e, appunto, Tercas. L’operazione di maquillage consente di occultare, facendole sparire, 270 milioni di perdite.
3. 2016. L’asta per gli amici
La chiusura del bilancio 2015, non ha risolto i problemi. Anzi. Popolare sa che tra il valore reale delle azioni collocate l’anno prima e quello dichiarato, balla circa il 30 per cento. Il titolo, dunque, deve essere svalutato. Ma prima c’è da risolvere una questione. Molte di quelle azioni sono state vendute infatti a imprenditori esposti con la banca per cifre importanti. È il gioco delle “operazioni baciate” che ha già messo in ginocchio le banche venete: ti concedo un prestito a patto che ne userai una parte per acquistare le mie azioni. Accade così che, il 18 marzo, nell’ultima asta utile prima dell’assemblea dei soci del 24 aprile che svaluterà il titolo, alcuni azionisti, diciamo i più “fortunati”, riescono a liberarsi delle azioni scavalcando l’ordine cronologico dei venditori. Da questo momento in poi, le azioni puntano dritte verso l’abisso. Nessuno riuscirà a venderle. Il loro valore si scioglierà come neve al sole, arrivando a poco più di 2 euro prima che le negoziazioni vengano sospese.
4. 2016. Il gioco delle imposte
Nel bilancio del 2015, Popolare lavora su un’altra voce. Perché il gioco è sempre lo stesso. Occultare le perdite o omettendone il valore o, al contrario, appostando attivi che non esistono. O, comunque, di cui non vi è certezza. In questo caso, vengono contabilizzate – a titolo di credito verso l’erario – imposte anticipate sulla perdita fiscale. Ne vengono fuori poco meno di 100 milioni.
5. 2016. Il Fondo Atlante
Anche il Fondo Atlante torna buono per aggiustare i numeri. Nel 2016, nel pieno della tempesta che sta spazzando via le banche venete, Atlante è il salvagente concepito dal governo per sottrarsi al naufragio. La Popolare partecipa al fondo per poco più di 24 milioni che, alla fine di quell’anno, si sono svalutati di un terzo (circa otto milioni e mezzo). Dunque, quella minusvalenza dovrebbe pesare nel bilancio per il 33 per cento. Al contrario, la svalutazione viene iscritta per il 25 per cento. 6. 2017. Miulli, la causa vinta che non lo era La devotissima famiglia Jacobini merita ossequio, anche dei Santi, oltre che a loro dispetto. L’8 maggio, come ogni anno, durante i festeggiamenti di san Nicola, patrono di Bari, la statua del santo si ferma infatti di fronte alla sede centrale della Banca.
E se accade che un ente ecclesiastico, come il Miulli abbia bisogno di scontare un credito vantato nei confronti dell’Inps a valle della pronuncia di primo grado in un contenzioso amministrativo, va da sé che la Popolare sia a disposizione. La Banca sconta infatti all’ente circa 32 milioni di euro, più interessi, dando per pacifico ciò che pacifico non è. Che l’Inps continuerà a soccombere anche nei successivi gradi di giudizio.
Cosa che non accadrà. Il 16 febbraio del 2017, la banca, subentrata all’Ente, viene condannata a pagare all’Inps 41,7 milioni di euro. Dovrebbe far fronte il Miulli. Ma, nel frattempo, è andato in concordato. Alla Popolare tornano solo 15 milioni. Il resto è sofferenza.
7. 2017. Investitori di carta
La situazione della Popolare, nel 2017, si è fatta già pesantissima. La banca ha sul collo la Banca d’Italia e la Consob, che chiedono spiegazioni sui bilanci, sul prezzo delle azioni, sulle loro modalità di collocamento. Sono stati infatti spacciati come navigati investitori, agricoltori ottantenni, docenti di scuole medie in pensione, casalinghe vedove, manovali con la licenza media, che avevano affidato alla banca i risparmi di una vita. In cambio, magari, di un mutuo concesso per l’acquisto di una prima casa ai figli. La Banca corre ai ripari. Agli ignari “investitori” vengono fatti firmare a posteriori moduli di accettazione del rischio. A Consob e Banca d’Italia viene raccontato che tutto è nella norma. 8. 2017. Governance di famiglia
La Popolare, sulla carta, ha, come vuole la legge, una governance che dovrebbe assicurare trasparenza e controlli interni incrociati. Ma, alla Popolare, la governance è una maschera che cela quello che sanno anche i sassi. Dentro e fuori la banca. Decide un uomo solo. Il vecchio Marco, il patriarca, che ha ereditato la banca da suo padre, e che la banca darà ai suoi due figli. Quanto allo stimato avvocato Gianvito Giannelli, non indagato e presidente al momento del commissariamento di venerdì, è suo nipote. 9. 2018. De Bustis o del “divide et impera” Marco Jacobini è uomo astuto. Quando le cose volgono al peggio, richiama in banca, come amministratore delegato, il suo vecchio direttore generale: Vincenzo De Bustis Figarola. Il banchiere capisce che la banca balla sull’orlo dell’abisso e divide la famiglia. Con un obiettivo: prendersi la Popolare. Tira a sé Luigi. Convince il patriarca a fare un passo di lato e, per provare a accreditare una discontinuità nella gestione della banca, avvia un’azione di responsabilità contro Gianluca Jacobini e altri funzionari, contestandogli la concessione di crediti facili.
Come accaduto per la holding Fusillo, pugliesi di Noci (Bari). Sono a un passo dal fallimento (erano in concordato), con un buco da 200 milioni e un’esposizione con la banca per 100. La Popolare annuncia l’intenzione di «erogare nuova finanza per 40 milioni di euro».
10. 2019. Il fondo Maltese Tra il dicembre del 2018 e il marzo 2019, l’amministratore delegato De Bustis propone al consiglio di amministrazione un’iniziativa di patrimonializzazione attraverso uno strumento che ricorda un bond per un ammontare di 30 milioni. Subito dopo, la Popolare riceve una richiesta irrevocabile di adesione da parte di una società maltese, la Muse ventures ltd. per l’intero importo: 30 milioni. Contemporaneamente, De Bustis, siamo al gennaio di quest’anno, acquista quote di un fondo lussemburghese, il Naxos plus, per 51 milioni. È un’operazione accreditata come necessaria ad aumentare il valore delle partecipazioni della Popolare e che sarebbe stata in parte coperta dall’impegno con il fondo maltese. In realtà, le cose vanno in altro modo. Il Muse è una scatola vuota, con un capitale sociale di 1.200 euro ed è riconducibile a tale Gianluigi Torzi, finanziere con una lunga coda di inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto. I 30 milioni, va da sé, da Malta non arriveranno mai, ma, dal Lussemburgo, chiedono in compenso i 51 a Bari. È l’ultima piroetta sul ciglio dell’abisso.