Monumento identitario per eccellenza, perché dedicato al santo patrono della città ed erroneamente creduto fino all’Ottocento non un edificio romanico compiuto tra XII e XIII secolo qual è, ma eretto nella tarda Antichità sulle rovine di un tempio di Marte, e dunque testimonianza vivente del legame privilegiato di Firenze con l’antica Roma, il "bel San Giovanni" ha ispirato non a caso all’esule Dante versi venati di nostalgia e accorata speranza, in cui vagheggia di celebrare il proprio riscatto «in sul fonte del mio battesmo», ricevendo sul capo la corona d’alloro che spetta ai sommi poeti. Così come non è un caso che Brunelleschi lo abbia rappresentato, traguardato dal portale centrale del Duomo, nella famosa tavola in cui volle offrire la dimostrazione sperimentale della perfetta illusività della sua "prospettiva lineare".
Fin dal XII secolo, la cura e la decorazione del Battistero furono affidate all’Arte di Calimala, la potente corporazione dei mercanti di panni, che nel 1329, per emulare le magnifiche porte in bronzo di Bonanno di cui si fregiava il Duomo di Pisa, incaricò lo scultore Andrea Pisano di realizzare modelli in creta per una delle tre porte, quella principale perché si apre sul lato est, di fronte alla Cattedrale. La fusione in bronzo fu invece affidata a esperti fonditori veneziani. Come in quelle pisane, il programma figurativo di questa porta si dispiega su sette registri sovrapposti, distribuiti sui due battenti. Nelle venti formelle dei registri superiori sono narrate le Storie del Battista , mentre nelle otto restanti campeggiano le quattro Virtù Cardinali e le tre Teologali, più un’ottava, l’Umiltà, che allude alla virtù comune al Battista e alla Vergine, cui è dedicato il Duomo.
Nel 1330, dopo aver ideato la sofisticata cornice mistilinea a losanga lobata entro cui iscrivere le storie figurate, Andrea si mise al lavoro e nel corso dei sei anni impiegati per completare la fusione e la doratura dell’insieme il suo linguaggio figurativo rivela nella sobria ma eloquente gestualità delle figure, impaginate in modo da far scattare un rapporto di perfetta simbiosi con lo sfondo, quella progressiva assimilazione dello stile giottesco che lo trasformò nell’alter ego del pittore in scultura, tanto da ereditarne la direzione del campanile.
Nel 1401 il ventenne Lorenzo Ghiberti si aggiudicò l’incarico della Porta nord, vincendo un concorso in cui la sua formella con il Sacrificio d’Isacco fu preferita, per la maggiore abilità tecnica e soprattutto per la superiore capacità di adattarsi con fluida ed elegante naturalezza all’ormai canonica cornice di Andrea Pisano, a quella del rivale Brunelleschi, ricca anch’essa di citazioni antiquarie, ma più attardata nei modelli e tecnicamente meno evoluta perché composta da più pezzi assemblati.
La Porta nord è identica nella struttura a quella del Pisano, con le sue 28 formelle divise in due gruppi: le otto dei registri inferiori sono abitate dai quattro Evangelisti e da altrettanti Dottori della Chiesa, le restanti venti da episodi della Vita e Passione di Cristo.
Cominciata nel 1403, la porta fu terminata solo nel 1424, perché Lorenzo dovette anche seguirne la fusione e la doratura, sia pur servendosi di validi aiuti e garzoni. In quel ventennio, infatti, la sua bottega fu la fucina in cui si formarono molti dei futuri protagonisti della scena artistica fiorentina, da Donatello a Michelozzo, da Masolino a Paolo Uccello. Una volta conclusa, la porta ebbe un tale successo da imporre la decisione di non montarla sul lato nord, ma di riservarle il posto d’onore su quello est, spostando sul fianco sud quella trecentesca. Tuttavia neppure questa prima porta di Ghiberti era destinata a rimanere nel lato orientale, perché un quarto di secolo dopo, dovette a sua volta emigrare sul lato nord, cedendo il posto d’onore alla nuova, fulgida porta, in cui Lorenzo volle superare se stesso, riducendo a dieci ampi riquadri lo spazio dedicato ad altrettante storie del Vecchio Testamento. Con risultati di tale splendente e ariosa eleganza, da dettare schemi narrativi destinati a influenzare anche il secolo successivo, da Cellini a Giambologna, e a strappare la definizione, che secondo Vasari è di Michelangelo, di porta degna del Paradiso.
Il museo In fila per il Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore
SUSANNA NIRENSTEIN
Perfetto come un diamante il Battistero di Firenze irradia le sue linee bicrome, l’ottagono che lo contiene, la piramide marmorea che provocatoriamente lo conclude in alto, come se il suo mistero (poco si sa delle sue origini, tempio dedicato a Marte? fonte battesimale paleocristiano?) rifrangesse intorno bellezza geometrica totale, razionalità, un nucleo di città ideale che quasi anticipa fin dal XII secolo, quando è sorto, tutta la meraviglia che solo il Rinascimento ci avrebbe regalato trecento anni dopo. All’interno, mille tesori e mille influenze: il disegno orientaleggiante dei pavimenti policromi composti come i tappeti sovrapposti che guerre e mercati avevano fatto incontrare ai fiorentini, le colonne romane che scandiscono le pareti, i segni celtici che si affacciano dai muri oltre le bifore, due sarcofagi del III e IV secolo, il monumento funebre di Donatello e Michelozzo per l’antipapa Giovanni XXIII, l’immenso mosaico dorato di segno bizantino che avvolge la cupola e ammonisce col Giudizio Universale. Fuori, le tre porte bronzee e dorate. Ed è qui la novità. Perché finalmente è stato completato il restauro delle immense coppie di ante (5 metri circa di altezza e tre di larghezza, per 8 tonnellate di peso) che l’Arte della Calimala, ovvero i mercanti, commissionarono a partire dall’inizio del ’300 a suggellare la preziosità dello spazio. Tutte e tre, ormai in copia in piazza dopo secoli di polveri e inquinamento, rimesse a nuovo hanno trovato il loro posto protetto nelle teche del Museo dell’Opera del Duomo. In ordine, la Porta del Paradiso (realizzata nel 1425-1452) e poi quella Nord (1403-1425), ambedue di Lorenzo Ghiberti. Infine, questa settimana è stata restituita a splendore dall’Opificio delle Pietre Dure la Porta Sud, la più antica, quella compiuta tra il 1330 e il 1336 da Andrea Pisano, discepolo e collaboratore di Giotto. Le Porte avevano già lasciato la loro collocazione originale nel 1943 quando furono rimosse durante la II Guerra Mondiale e portate al sicuro sotto una galleria ferroviaria. Tornate al loro posto, danneggiate anche dall’alluvione del 1966, fu a partire dal 1979 che si decise di por mano al deterioramento che avevano subito. La prima, come abbiamo detto, fu la Porta del Paradiso nel 1990: un impegno che, teso a capire come affrontare le dorature a mercurio, solo nel 2000 individuò un laser (ma non solo) capace di bruciare i depositi presenti sull’oro e terminò il suo compito nel 2012. La seconda, quella Nord, trattata con la stessa complessa metodologia, fu rimessa a posto tra il 2013 e il 2015. La terza infine tra il 2016 e oggi. Ed è solo adesso che si può leggere veramente il carattere e le differenze profonde che segnano i tre capolavori che ci conducono man mano in pieno Rinascimento, senza dimenticare che il loro compito, a quei tempi, era inteso anche a gareggiare con la titanica impresa, presieduta dall’Arte della Lana, che si stava sviluppando al loro fianco: la Cattedrale di Santa Maria del Fiore (la cui ambiziosa facciata progettata a fine ’200 da Arnolfo di Cambio – distrutta alla fine del XVI secolo – sta oggi in una faraonica ricostruzione in scala uno a uno davanti alla tre Porte nella profonda galleria del Museo dell’Opera del Duomo) e il Campanile di Giotto. Ma per leggere tutta la secolare impresa delle porte, torniamo alla Porta Sud di Andrea Pisano appena restaurata, e nel guardarla sarà suggestivo pensare che furono mandati dei messi a Pisa per studiare le porte della Primaziale, a Venezia per reperire degli artigiani della fusione. Come si è detto la Porta racconta in venti scene iscritte in formelle quadrilobate d’ispirazione gotico-parigina (l’Arte della Calimala voleva far sentire la sua cultura internazionale) la vita di San Giovanni Battista e, in basso, in altre otto piastrelle, le Virtù teologali e cardinali più l’Umiltà. L’oro adesso affiora sui personaggi e le sporgenze in ogni riquadro, e ci fa assaporare ancora di più la scuola giottesca a cui Pisano apparteneva: ecco la scena di Salomè che porge a Erodiade la testa del Battista, identica a quella dell’affresco di Giotto a Santa Croce; ecco l’umanità delle figure, ecco l’iscrizione delle scene in campi visivi quadrati e rettangolari degli affreschi di Giotto; ecco i particolari che emergono da ogni insieme, le panche ognuna con un ornamento diverso, la tavola di Erode apparecchiata con tanto di stoviglie che fuoriescono come in una favola. Ma soprattutto ecco il programma narrativo così articolato da far pensare al racconto di Maria e di Cristo eseguito da Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova. Solo nelle ultime composizioni troviamo un certo adattamento al movimento curvo della cornice mistilinea, caratteristica che invece esploderà con la vita di Gesù messa in scena da Ghiberti, che vincerà il concorso per la Porta successiva (battendo anche Brunelleschi con una formella sul Sacrificio di Isacco). Ghiberti infatti, pur mantenendo il formato e le cornici imposte dall’Arte della Calimala, imporrà uno stile completamente innovativo: qui ogni composizione quasi trasborda affollata di personaggi approfonditi anatomicamente, dinamicamente, psicologicamente e al posto dei fondali scenici e architettonici giotteschi, ora risuonano rocce, alberi, piante, folle, come nella commovente Natività o nell’Annunciazione, o nella Flagellazione dove i gesti degli aguzzini sembrano quasi uscire dalla cornice. Un processo creativo che si fa pieno Rinascimento con la Porta d’oro del Paradiso dedicata all’Antico Testamento, dove il Ghiberti mette in campo tutte le novità della pittura del tempo, la prospettiva appena inventata da Brunelleschi col suo modo dunque di rappresentare l’architettura, e il sovrapporsi caleidoscopico degli episodi: in un solo grande riquadro (che qui si ridussero da 28 a 10) Lorenzo Ghiberti sapeva iscrivere un’intera storia, che fosse quella di Giuseppe, della Genesi, di Abramo... Guardarle è un coro di rimandi da far girare la testa, un vero gioco di flash back e forward cinematografici. Un accecante lampo di bellezza. E si capisce perché Michelangelo vedendole disse «elle son tanto belle che elle starebbon bene alle porte del Paradiso» e così le battezzò.
SUSANNA NIRENSTEIN
Perfetto come un diamante il Battistero di Firenze irradia le sue linee bicrome, l’ottagono che lo contiene, la piramide marmorea che provocatoriamente lo conclude in alto, come se il suo mistero (poco si sa delle sue origini, tempio dedicato a Marte? fonte battesimale paleocristiano?) rifrangesse intorno bellezza geometrica totale, razionalità, un nucleo di città ideale che quasi anticipa fin dal XII secolo, quando è sorto, tutta la meraviglia che solo il Rinascimento ci avrebbe regalato trecento anni dopo. All’interno, mille tesori e mille influenze: il disegno orientaleggiante dei pavimenti policromi composti come i tappeti sovrapposti che guerre e mercati avevano fatto incontrare ai fiorentini, le colonne romane che scandiscono le pareti, i segni celtici che si affacciano dai muri oltre le bifore, due sarcofagi del III e IV secolo, il monumento funebre di Donatello e Michelozzo per l’antipapa Giovanni XXIII, l’immenso mosaico dorato di segno bizantino che avvolge la cupola e ammonisce col Giudizio Universale. Fuori, le tre porte bronzee e dorate. Ed è qui la novità. Perché finalmente è stato completato il restauro delle immense coppie di ante (5 metri circa di altezza e tre di larghezza, per 8 tonnellate di peso) che l’Arte della Calimala, ovvero i mercanti, commissionarono a partire dall’inizio del ’300 a suggellare la preziosità dello spazio. Tutte e tre, ormai in copia in piazza dopo secoli di polveri e inquinamento, rimesse a nuovo hanno trovato il loro posto protetto nelle teche del Museo dell’Opera del Duomo. In ordine, la Porta del Paradiso (realizzata nel 1425-1452) e poi quella Nord (1403-1425), ambedue di Lorenzo Ghiberti. Infine, questa settimana è stata restituita a splendore dall’Opificio delle Pietre Dure la Porta Sud, la più antica, quella compiuta tra il 1330 e il 1336 da Andrea Pisano, discepolo e collaboratore di Giotto. Le Porte avevano già lasciato la loro collocazione originale nel 1943 quando furono rimosse durante la II Guerra Mondiale e portate al sicuro sotto una galleria ferroviaria. Tornate al loro posto, danneggiate anche dall’alluvione del 1966, fu a partire dal 1979 che si decise di por mano al deterioramento che avevano subito. La prima, come abbiamo detto, fu la Porta del Paradiso nel 1990: un impegno che, teso a capire come affrontare le dorature a mercurio, solo nel 2000 individuò un laser (ma non solo) capace di bruciare i depositi presenti sull’oro e terminò il suo compito nel 2012. La seconda, quella Nord, trattata con la stessa complessa metodologia, fu rimessa a posto tra il 2013 e il 2015. La terza infine tra il 2016 e oggi. Ed è solo adesso che si può leggere veramente il carattere e le differenze profonde che segnano i tre capolavori che ci conducono man mano in pieno Rinascimento, senza dimenticare che il loro compito, a quei tempi, era inteso anche a gareggiare con la titanica impresa, presieduta dall’Arte della Lana, che si stava sviluppando al loro fianco: la Cattedrale di Santa Maria del Fiore (la cui ambiziosa facciata progettata a fine ’200 da Arnolfo di Cambio – distrutta alla fine del XVI secolo – sta oggi in una faraonica ricostruzione in scala uno a uno davanti alla tre Porte nella profonda galleria del Museo dell’Opera del Duomo) e il Campanile di Giotto. Ma per leggere tutta la secolare impresa delle porte, torniamo alla Porta Sud di Andrea Pisano appena restaurata, e nel guardarla sarà suggestivo pensare che furono mandati dei messi a Pisa per studiare le porte della Primaziale, a Venezia per reperire degli artigiani della fusione. Come si è detto la Porta racconta in venti scene iscritte in formelle quadrilobate d’ispirazione gotico-parigina (l’Arte della Calimala voleva far sentire la sua cultura internazionale) la vita di San Giovanni Battista e, in basso, in altre otto piastrelle, le Virtù teologali e cardinali più l’Umiltà. L’oro adesso affiora sui personaggi e le sporgenze in ogni riquadro, e ci fa assaporare ancora di più la scuola giottesca a cui Pisano apparteneva: ecco la scena di Salomè che porge a Erodiade la testa del Battista, identica a quella dell’affresco di Giotto a Santa Croce; ecco l’umanità delle figure, ecco l’iscrizione delle scene in campi visivi quadrati e rettangolari degli affreschi di Giotto; ecco i particolari che emergono da ogni insieme, le panche ognuna con un ornamento diverso, la tavola di Erode apparecchiata con tanto di stoviglie che fuoriescono come in una favola. Ma soprattutto ecco il programma narrativo così articolato da far pensare al racconto di Maria e di Cristo eseguito da Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova. Solo nelle ultime composizioni troviamo un certo adattamento al movimento curvo della cornice mistilinea, caratteristica che invece esploderà con la vita di Gesù messa in scena da Ghiberti, che vincerà il concorso per la Porta successiva (battendo anche Brunelleschi con una formella sul Sacrificio di Isacco). Ghiberti infatti, pur mantenendo il formato e le cornici imposte dall’Arte della Calimala, imporrà uno stile completamente innovativo: qui ogni composizione quasi trasborda affollata di personaggi approfonditi anatomicamente, dinamicamente, psicologicamente e al posto dei fondali scenici e architettonici giotteschi, ora risuonano rocce, alberi, piante, folle, come nella commovente Natività o nell’Annunciazione, o nella Flagellazione dove i gesti degli aguzzini sembrano quasi uscire dalla cornice. Un processo creativo che si fa pieno Rinascimento con la Porta d’oro del Paradiso dedicata all’Antico Testamento, dove il Ghiberti mette in campo tutte le novità della pittura del tempo, la prospettiva appena inventata da Brunelleschi col suo modo dunque di rappresentare l’architettura, e il sovrapporsi caleidoscopico degli episodi: in un solo grande riquadro (che qui si ridussero da 28 a 10) Lorenzo Ghiberti sapeva iscrivere un’intera storia, che fosse quella di Giuseppe, della Genesi, di Abramo... Guardarle è un coro di rimandi da far girare la testa, un vero gioco di flash back e forward cinematografici. Un accecante lampo di bellezza. E si capisce perché Michelangelo vedendole disse «elle son tanto belle che elle starebbon bene alle porte del Paradiso» e così le battezzò.