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 2019  dicembre 14 Sabato calendario

Dai Beatles a 007, i miti di Londra sono ancora nostri

Addio Londra sorgente dalle «acque limacciose del Tamigi». L’Unione Europea sarà l’unico posto sul pianeta dove si parla la lingua degli altri, dove un polacco e un italiano, un francese e un tedesco per capirsi si esprimeranno nell’idioma di un Paese ormai a loro estraneo.
S ul piano giuridico e politico, s’intende. Un Paese che dà o rifiuta visti, passaporti, permessi di soggiorno. Ma un Paese da cui non potremo e non vorremo mai prescindere per la cultura, quella astratta e quella materiale.
La Gran Bretagna è il software dell’Occidente, e pure dell’Oriente. È la terra dove si compongono le musiche, si inventano i mondi, si creano i personaggi, si pensano le serie, nascono i talenti che cambiano il nostro modo di pensare e di sentire. È sempre stato e sempre sarà così, anche se i loro governanti ci tratteranno da estranei.
La generazione degli Anni 60 ha avuto, com’è ovvio, la swinging London e la minigonna, i Beatles e i Rolling Stones, la regina che da tempo era già la stessa ed Elton John che non aveva ancora i capelli. Ma anche la Londra laburista – quando c’era Tony Blair – ha lasciato ricordi formidabili.
Subito morì lady Diana. Il diabolico Alastair Campbell inventò per il premier la definizione «princess of the people», il suddetto Elton scrisse prontamente una canzone e la principessa tradita e traditrice divenne un mito. Come il Manchester United del laburista Alex Ferguson e di Beckham, che sposava la più bella delle Spice Girls. Le canzoni di Robbie Williams e i romanzi di Ian McEwan. Gli emiri arabi e gli oligarchi russi, Abramovic contro Berezovskj, spie e omicidi con il veleno. La morbidezza di Kate Winslet e la magrezza di Keira Knightley. Il ciuffo di Hugh Grant e il London Eye, che ispirava l’ennesimo capitolo della saga di James Bond.
E la fiaba globale di Harry Potter, ultima invenzione di una letteratura fantastica che da secoli continua a «riempire il cielo inglese di miraggi». Tutti i miti letterari britannici in questi anni sono diventati film di successo internazionale: Narnia, Alice nel paese delle meraviglie, Jack the Ripper, Sherlock Holmes, Gulliver, Frankenstein, i romanzi delle sorelle Bronte e ovviamente Shakespeare (lo splendido Shakespeare in Love di John Madden vinse sette Oscar nel 1999, bellissimo anche Anonymous in cui il Bardo era in realtà il conte di Oxford); mentre prima l’americano Kevin Costner, poi il neozelandese Russell Crowe diventavano Robin Hood. Nel frattempo si portavano al cinema le regine, dalle due Elisabetta a Vittoria, e gli scienziati: Stephen Hawking de La teoria del tutto e Alan Turing, il genio che decifrò il codice dei nazisti ma fu perseguitato in quanto omosessuale.
Damien Hirst metteva in formalina gli squali e lanciava la Tate Modern, Lewis Hamilton vinceva il Mondiale di Formula1 a 23 anni, Amy Winehouse pareva la voce di Dio, Alexander McQueen provocatore dell’alta moda inventava le scarpe armadillo indossate da Lady Gaga. Se tu non andavi a Londra, Londra veniva da te.
Poi qualcosa si è rotto.
La grande crisi del 2008 ha colpito duro la capitale della finanza europea. I laburisti hanno perso le elezioni del 2010 e non si sono più ripresi. L’Olimpiade 2012 fu un successo; ma la Brexit ha fatto perdere tre anni e mezzo sia al Regno Unito sia all’Europa. Amy Winehouse se l’è portata via la droga, McQueen si è suicidato, e James Bond ha assunto le fattezze rudi di Daniel Craig, che ai tempi di Sean Connery avrebbe fatto il cattivo della Spectre.
Eppure la metropoli multietnica continua ad avere grande capacità di attrazione e di creazione di miti, neppure paragonabile a quella dei Paesi dell’Unione, comprese Francia e Germania. La serie di culto Downton Abbey è approdata al cinema, Adele non sbaglia una canzone, Banksy è di qui, il Guardian ha il sito più visitato d’Europa, il Liverpool è tornato a vincere la Champions.
Londra, anche se non ci vuole più, ci appartiene. E non si libererà mai di noi.