la Repubblica, 14 dicembre 2019
Intervista a Citto Maselli
Francesco Maselli è, insieme a Giuliano Montaldo, l’ultimo rappresentante del cinema italiano uscito dal Neorealismo, che ha cercato di raccoglierne l’eredità negli anni successivi. Ha attraversato il primi tentativi di raccontare la borghesia degli anni 50, la commedia, la stagione del cinema politico ( Il sospetto, con Volonté), ha fatto vincere la Coppa Volpi a una giovanissima Valeria Golino per Storia d’amore nel 1986, e a lungo è stato uno degli esponenti dell’associazione degli autori di cinema, la temibile Anac.
Qualche giorno fa ha compiuto 89 anni ed è sempre disponibile a raccontarsi con ironia. Quando lo intervistiamo è in partenza per Ascoli Piceno, dove ieri sera ha partecipato alle celebrazioni per i 60 anni del film I delfini, ritratto della borghesia che ruotava intorno allo storico caffè Meletti, cuore della città.
Come le è venuta l’idea di quel film, e perché proprio Ascoli?
«L’idea del film viene proprio dalla città. Mi ero trovato per caso ad Ascoli tornando da Milano, in una giornata di neve, e ne era nata una passione. Tempo dopo il produttore Franco Cristaldi mi aveva passato una sceneggiatura scritta da Antonio Pietrangeli, Le ragazze chiacchierate. A Pietrangeli però non piaceva più.
Gli dissi che, pur di ambientare il film ad Ascoli, se avessi potuto cambiarla completamente avrei fatto il film. E in 4-5 giorni scrissi il copione. La mia idea era di raccontare dei giovani ricchi di provincia, e dietro di loro la trasformazione della borghesia: finita la rendita fondiaria, questi “delfini” si trasformano in imprenditori con grande cinismo».
Tra i collaboratori al copione risulta anche Alberto Moravia.
«Io avevo due grandi riferimenti letterari: lui e Mario Soldati. Gli indifferenti e America primo amore.
Il suo vero apporto è l’idea di una festa per dei teatranti, fatta da un nobile del luogo, una scena che è all’inizio del film».
Ha conosciuto anche Soldati?
«Sì, bene. La prima volta per La provinciale, un suo film tratto proprio da Moravia, con la Lollobrigida. Antonioni, di cui all’epoca ero assistente, voleva la Lollo come protagonista di La signora senza camelie ma Soldati, a cui Antonioni stava antipatico, le consigliava di lasciar perdere.
Quindi andai sul set di Soldati per intercedere. Alla fine Antonioni prese la Bosé».
“I delfini” ha un curioso cast internazionale: le giovani Antonella Lualdi e Claudia Cardinale, il francese Gérard Blain, l’americana Betsy Blair nel ruolo della contessa.
«Avemmo qualche problema solo con Blain, che era bassissimo e insisteva per non essere inquadrato accanto alle attrici.
Della Lualdi volevo fare un personaggio molto erotico, ma con la censura dell’epoca mi sono dovuto limitare a una sottoveste e a una certa insistenza sulle gambe.
Betsy Blair, moglie di Gene Kelly, era una dei “dieci di Hollywood”, il gruppo di attori, sceneggiatori e registi comunisti che si erano rifiutati di testimoniare davanti alla commissione McCarthy. Viveva a Parigi, con una colonia di espatriati che frequentavo: Mike Wilson, sceneggiatore de Il ponte sul fiume Kwai, Jules Dassin, Joseph Losey, a volte Simone Signoret, Fred Zinnemann (il regista di Mezzogiorno di fuoco) che veniva da Londra. E c’era addirittura Deanna Durbin, che era stata la ragazzina acqua e sapone delle commedie musicali. Un tempo celebre, era una comunista agguerritissima. La Blair era il capo cellula, la più ideologicamente preparata. Io in quanto comunista avevo il diritto di partecipare alle riunioni, a volte un po’ surreali. Una volta si discusse se era giusto imparare il francese. Mi pareva ovvio vivendo a Parigi, ma era subito diventata una questione ideologica».
Il film lanciò una canzone di Nico Fidenco, cantata in inglese.
«Io volevo usare Crazy Love di Paul Anka, ma costava 6 milioni di lire. Cristaldi disse: scriviamone una simile. Io scrissi le parole in italiano, ma all’epoca nessuno sapeva l’inglese e allora chiamammo al volo l’Italcable, che si occupava delle telefonate internazionali, e facemmo venire l’impiegato che ci aveva risposto. Pur di non pagarlo per la traduzione, gli offrii il 50% sui diritti. Poi me ne sono pentito, perché la canzone è stata un successo».
Era, e dice di essere ancora, comunista. Ma cosa voleva dire lavorare da comunisti dentro l’industria del cinema?
«Beh, il cinema è un’industria particolare, è un’industria di prototipi, che lascia al suo interno lo spazio per molte contraddizioni.
Per cui sì, io e molti altri eravamo comunisti, ma abbiamo fatto il cinema e ci siamo molto divertiti».