Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  dicembre 14 Sabato calendario

Il cabaret in milanesco


Era il 2005, ma alla Iulm di Milano, fermata Romolo della metro verde, ne parlano ancora. Alla discussione della tesi di laurea di cui era l’argomento Enzo Jannacci si presentò regolarmente, cioè con quattro ore di ritardo. Data l’eccezionalità della circostanza, la commissione non si ritirò a deliberare il voto prima di avergli chiesto cosa pensasse del lavoro del laureando. Bene, ne pensava: e lo disse. Aggiunse però una clausola: «Peccato l’argomento». Un campione tanto rappresentativo dell’eloquenza jannacciana non poteva che diventare, diversi anni dopo, titolo del libro ricavato da quella tesi. Autore di tesi e libro era Sandro Paté ( Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci,
Log editore 2014), che di mestiere fa il copywriter e il content manager (“oh yes”, chioserebbe il suo biografato), ma che da allora ha continuato a coltivare la sua vocazione parallela. Dopo un libro dedicato a Guido Nicheli, quello di Milano-Cortina, due giri di Rolex,
Paté ora firma assieme ad Andrea Ciaffaroni Cochi e Renato. La biografia intelligente (Sagoma editore) e quella sua vocazione si definisce meglio: diventare cronista postumo ed etnologo di quel “giro” (milieu, koiné, semiosfera) costituito dalla comicità milanese.
Se ci si consente il neologismo, Paté si propone come un autorevole studioso del “milanesco”. Il “milanesco” è qualcosa che rende liturgico l’uso dell’aggettivo (peraltro privo di senso) “stralunato”. Facciamo un esempio. «La gallina non è un animale intelligente, ma denudata, oliata, portata a centoventi gradi perde ogni scontrosità e diventa molto buona». È una battuta? Ad accontentarsene si può anche rispondere di sì, ma non è una gran battuta. Per come entrava nello sketch di Cochi e Renato era però parte di un mondo, il mondo che si sprigionava dall’incontro di un poeta e di un contadino. Lassù, a milletré.
Chiamasi insomma qui, e per mera sintesi giornalistica, “milanesco” una parlata solo occasionalmente dialettale, caratterizzata da intonazione, vocali strane, strascicate e aperte o chiuse un po’ a sproposito, e ritmo interiettivo sincopato. Nonché, e ovviamente, i precetti morettiani invertiti: “la Silvia” e non “Silvia”, “cagare” e non “cacare”, “figa” e non “fica”. Non certo per contribuire ai nuovi e ridicoli campanilismi. Anzi fra Milano e Roma, in fatto di parlar chiaro e svelto, sin dai tempi di Porta e Belli le cose migliori vennero non da spallate ma da spalleggiamenti reciproci, come per esempio fra Gassman e Sordi nella Grande Guerra. Il nome di “milanesco” esce proprio dall’idea che fino a neanche tanto tempo fa il milanese poteva funzionare come il romanesco di oggi (e di sempre): una logica ancor prima che una lingua, un’inflessione che è uno sguardo sul mondo, nonché un repertorio sempre aggiornato e rinnovato di materiali sillabici e concettuali disponibili per l’assemblaggio istantaneo di battute pronte.
Cabaret? Comicità? Flavio Oreglio, che è noto per ragioni di catarsi ma del cabaret è anche archivista e studioso, distingue: «oggi basta che uno dica due cazzate che subito si dice “quello lì è un comico”. Sarebbe come definire matematico il mio amico Carlo perché ha l’abitudine di dire “tutto sommato”». E poi puntualizza: «Il cabaret può aprire a discorsi e mondi molto vasti che comprendono l’arte, la poesia, la canzone d’autore, il disegno satirico...».
Tanto vasti, i discorsi, da far star vicini, per dire, Piero Manzoni e Enrico Beruschi, Massimo Boldi e Renato Vallanzasca. Basta scorrere l’indice dei nomi della biografia di Cochi e Renato di Paté per appurarlo. Il “milanesco” era infatti una lingua per tutti, come hanno dimostrato Giorgio Porcaro e Diego Abatantuono che ne fecero l’irresistibile pidgin del loro integratissimo terrunciello.
Tra i padri fondatori va certo annoverato Dario Fo, che è stato maestro di Jannacci e di tutti gli altri sino almeno a Paolo Rossi, ma che però ha poi preferito inventarsi non una ma un paio di altre lingue sue personali (il Grammelot e il Padàn, da tenersi distinti), lingue che era il solo a saper parlare ma che in compenso potevano essere intese sino a Stoccolma. Gli innesti da fuori – da fuori Milano e/o da fuori del giro stretto del cabaret – comprendono nomi come Umberto Eco e Oreste del Buono, e diramazioni che poi giungono sino allo Zelig di viale Monza e a quello di Cologno Monzese, come a dire Mediaset.
Quel mondo là è ampiamente inabissato e ora sta trovando chi lo racconta. Si va per aneddoti, frammenti di memoria collezionati da appassionati come Paté, messi in fila da protagonisti come Teo Teocoli, a volte ricostruiti dagli eredi diretti, per esempio il Paolo (Enzovic) Jannacci, o la Marina (Beppova) Viola, a cui si devono libri testimoniali anche difficili da scrivere, perché il milanesco è un mondo ampiamente malandrino e fa frizione con convenzioni borghesi come ad esempio la famiglia.
Tutto può servire per ricostruire uno humour che corrisponde a un modo di parlare qui e là ancora funzionante (per esempio nel lavoro di Ale e Franz). Uno humour che è anche un controcanto necessario a bilanciare i trionfalismi dei grattacieli nuovi, della Scala, eccetera. “Bauscia” è la parola milanese per chi tende a dare sempre bei voti a sé stesso. Cosa che diventa più accettabile se quel voto è espresso nel purissimo “milanesco” di Cochi e Renato: “Bravo, sette più”.