la Repubblica, 14 dicembre 2019
E con la Brexit, la Scozia invoca l’indipendenza. Il pericolo più concreto è che Sturgeon nei prossimi mesi organizzi un referendum illegale come quello in Catalogna
Giovedì notte. Mentre i conservatori maciullano i laburisti rubandogli i seggi in tutte le roccaforti al Nord, la spesso contenuta Nicola Sturgeon si scatena ed esulta in diretta tv come in una finale di Coppa del mondo. La premier scozzese agita i pugni, è incontenibile. Perché il suo partito nazionalista scozzese (Snp) ha appena strappato il seggio a un’altra scozzese, la giovane leader dei liberal-democratici Jo Swinson, che si dimetterà di lì a poco. Complessivamente, per l’Snp, un risultato straordinario: 48 seggi su 59 in Scozia. Conservatori e laburisti travolti. È l’unica nefasta notizia nella notte magica di Johnson.
Già, perché ora la Scozia rischia di diventare una nuova, esplosiva Catalogna. Ieri Sturgeon, come il vecchio eroe ribelle in kilt William Wallace “Braveheart”, poi catturato e giustiziato in piazza a Londra circa sette secoli fa, ha mostrato i pugni: «Boris Johnson, sei il leader di un partito sconfitto in Scozia, non hai il diritto di ostacolarci. Il popolo scozzese ha parlato: è ora di decidere il nostro futuro». Ossia, nelle utopie di Sturgeon, con un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia, dopo quello del 2014 vinto nettamente dagli unionisti con il 55 per cento. Quella consultazione popolare doveva essere “il referendum di una generazione”. Ma Sturgeon e il sempre più potente partito nazionalista non ci stanno per un motivo molto semplice, anzi, per un rompicapo politico.
La Scozia è la nazione più europeista del Regno Unito: il 62% ha votato contro la Brexit nel 2016. Negli anni ha beneficiato del mercato unico e dei fondi Ue soprattutto nel declino industriale post bellico, ha goduto delle normative europee su ambiente e lavoro, ha bisogno di forza lavoro e di immigrazione. Nel referendum sull’indipendenza 2014, però, molti cittadini – chissà quanti – votarono per restare nel Regno Unito perché allora rendersi indipendenti avrebbe significato uscire dall’“insopportabile Britannia” ma anche dall’amata Ue. E se Londra, all’epoca pieno membro Ue prima di Brexit, fosse rimasta nei palazzi di Bruxelles, ogni tentativo per la Scozia indipendente di entrare in Europa sarebbe stato negato – per ripicca – dal veto britannico.
Ecco perché Sturgeon e i suoi ora non ci stanno: non vogliono essere sbattuti fuori dall’Ue insieme alla brexiter Londra ed esigono un secondo referendum sull’indipendenza, «perché è cambiato tutto nel frattempo», secondo Sturgeon. Ma per Boris Johnson è assolutamente escluso. La sua rigidità potrebbe riaccendere in Scozia la “sindrome da Braveheart”, come del resto accadde con l’introduzione della tassa locale “poll tax” di Margaret Thatcher nel 1989. Ma fino a che punto?
Ieri il leader Snp a Westminster, Ian Blackford, ha citato il «rischio di crisi costituzionale». Il pericolo più concreto, tuttavia, è che Sturgeon nei prossimi mesi organizzi un referendum illegale come quello in Catalogna, innescando bollenti tensioni. Ecco perché qui si potrebbe davvero aprire la crepa più pericolosa del Regno Unito post Brexit, da quando i regni di Inghilterra e Scozia si unirono nel 1707 con l’Act of Union.
Non solo. Tra i tanti scheletri nel suo armadio giornalistico, quando era direttore dello Spectator nel 2004 il premier Johnson approvò la pubblicazione di un poema “satirico” che definiva gli scozzesi «una razza di parassiti che merita l’estinzione». Il settimanale conservatore l’ha rimosso dal sito. Ma molti, in Scozia, non lo hanno dimenticato.