il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2019
Riflessioni sul testamento condizionato
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Ho terminato in questi giorni un libro che mi ha ridotto per la fatica a un straccio bagnato. Una delle materie che ho dovuto studiare è la storia di Francia dal Medio Evo all’inizio del Novecento. Mi sono trovato di fronte a un argomento non nuovo, anzi conosciutissimo, sul quale ho riflettuto per la prima volta. E non tocca la Francia, ma tutti i paesi europei, né si termina con il Novecento ma, in forme più o meno mascherate, è vigente in tutto il mondo. Si maschera meglio, si pratica senza scrupoli religiosi e sociali. Per me, è una conquista di civiltà.
La molla massima, il valore massimo, sono stati sempre per l’essere umano la res, ossia la proprietà (quella che in Sicilia chiamano la “robba”) e la sua trasfusione simbolica in moneta. Alcune civiltà, in specie quella della Repubblica Romana, bilanciavano tale valore col rispetto religioso per la res publica e il senso – autentico – dell’onore. Quanti fra i massimi condottieri repubblicani sono morti poveri!
Questo è solo il punto di partenza. Voglio arrivare all’istituzione del testamento condizionato. Basta sfogliare un libro di storia per rinvenire un tema ricorrente, l’estinzione delle più grandi famiglie nobiliari e, a seguito di ciò, l’alienazione di patrimonî anche immensi alla Chiesa. Il caso è semplice. Un ricco, ricchissimo esponente della più alta nobiltà aveva un patrimonio da devolvere in eredità. Credo avesse potestà insindacabile anche sui figli legittimi; ma posso sbagliare.
Il testamento, come dico, era condizionato; e la condizione risolutiva era che l’erede a sua volta proseguisse la stirpe, ossia fosse sposato e padre. Uno dei casi più clamorosi è quello del ricchissimo Ducato di Ferrara. Formalmente era feudo della Chiesa. Alla morte di Alfonso II d’Este, nel 1597, privo di figli legittimi, Papa Clemente VIII, con artifizî canonistici proprî della genialità truffaldina della Curia entrò in possesso del Ducato, che dal 1598 divenne parte dello Stato della Chiesa.
Or mi domando. Ci doveva essere una commissione nefasta tra la paura dell’Inferno (incredibile, ma c’era: c’è ancora…) e un enfatico, gonfiato, concetto dell’onore (ben altra cosa da quello romano) che a volta s’identificava col concetto della “robba”, a volte vi confliggeva. In un’epoca nella quale per un’inezia si straziava atrocemente uno sventurato, nella quale si bruciavano sul rogo gli “eretici”, e l’eresia era considerata peccato più grave dello stesso omicidio (salvo da San Giovanni Crisostomo, per il quale il più nefando peccato era la sodomia): in epoche siffatte ci voleva tanto, in caso di marito impotente o moglie sterile, a far possedere la sposa da un robusto stalliere (che poi sarebbe stato decapitato), ovvero con una balia di fiducia fingere la gravidanza della Duchessa, della Baronessa, etc. Il fatto poteva pur trapelare: molto difficilmente fino a giungere al livello del giure.
Ma è possibile che per la combinazione del terrore dell’inferno (i teologi medioevali erano quasi tutti effettualmente atei) e di questa chimera chiamata onore si estinguesse la metà delle casate europee?
Voglio credere che in una parte dei casi intelligenti mariti (ne tratta il Decamerone) trovassero la giusta soluzione. Ma che cos’è questa superstizione del diritto di sangue? Della purezza del sangue? In senso genetico, si è visto che cosa ha prodotto. Guardatevi il ritratto dell’ultimo Asburgo spagnuolo, Carlo II.
Generalmente non credo al progresso: ma in certi casi solo un coglionazzo può negarlo.