la Repubblica, 13 dicembre 2019
Benigni racconta il Pinocchio di Garrone
Il Pinocchio di Garrone, rilettura d’autore per il grande pubblico del classico di Collodi (600 copie dal 19 dicembre con 01), tra i tanti meriti ha quello di riportare sul grande schermo Roberto Benigni. «Il pubblico mi è mancato moltissimo, fare l’attore è la cosa che amo di più al mondo. Sono felice di tornare con questo film per i bambini da otto a ottant’anni diretto da Matteo Garrone, che ha fatto un film molto italiano», ha detto Benigni. «Nessun altro al mondo poteva afferrare un capolavoro imprendibile, ogni volta che pensi di averlo acciuffato, va da un’altra parte, proprio come il personaggio. È un mistero e Matteo ha aperto il mistero come un cocomero e ha fatto venire fuori tutta la sua gioia, la bellezza, i colori».
Benigni lo definisce il più bel Pinocchio mai fatto e se gli si accenna a quello vissuto da regista risponde garbato: «Non me ne ricordo altri, in questo momento». Dice di aver accettato il ruolo «ancor prima che mi fosse chiesto. Garrone si è presentato con un disegno di me da vecchio che sembrava mio nonno». Per l’attore italiano più conosciuto all’estero, 67 anni, Pinocchio è quasi un libro divinatorio, «Fellini lo apriva come la Bibbia e metteva il dito…». Poi, è una grande storia di amore paterno. «Ho cercato di fare il padre, è la seconda volta che ci provo dopo La vita è bella.
Quel genitore diceva la bugia più grossa, era un pinocchietto. Geppetto invece è il padre per eccellenza, il più famoso del mondo insieme a San Giuseppe, tutti e due falegnami e tutti e due con due figli adottivi che si sono trovati là, che gli scappano di casa, che muoiono e risorgono. Parliamo di quella cosa lì, i Vangeli. E poi Pinocchio è un divertimento dal momento in cui nasce, dice “babbo, babbo” e scappa». La più classica delle favole. «Matteo l’ha resa insieme divertente e commovente. E il film fa paura come fanno paura le fiabe, quella paura che insegna, come la favola che ti leggeva di notte la mamma e ti mettevi sotto le coperte, una fiaba che fa bene alla salute».
Benigni-Geppetto gratta a colpi di scalpello l’ultima crosta secca di formaggio e in osteria s’inventa mille oggetti da riparare – tavoli, porte, sedie – finché non gli offrono un piatto di zuppa. La fame, dice Garrone, è un elemento che arriva dalla versione televisiva di Luigi Comencini. «Devo ringraziare Matteo per quella povertà, è meravigliosa, nelle gag in osteria c’è l’esempio di Chaplin, il principe di tutti noi e il padre di tutte le povertà. La povertà vera ti fa sembrare un miracolo qualunque cosa ti accada nella vita. Alla fine del film Pinocchio guadagna il miracolo della vita, più miracolo di così…».
Nel film c’è anche l’Italia della giustizia che condanna gli innocenti e della scuola che non insegna. E il tema della bugia sembra un’istantanea di quest’epoca di fake news. «Ogni giorno in Parlamento», dice Benigni, «c’è qualcuno con il burattino di Pinocchio in mano per far vedere che hanno detto una bugia, alle manifestazioni per strada si usa Pinocchio per associarlo al nome di qualche politico, è proprio un elemento straordinario, attualissimo, addirittura è avanti, è la nostra maschera per eccellenza, ma ha anche la dignità e la grandezza di un vero personaggio letterario». Il ricordo arriva da lontano: «Da bambino mia mamma mi chiamava: “Vieni qui pinocchietto”. Sono toscano, quando sono arrivato a Roma per il cinema ero un po’ sgangherato, pieno di energia e fame di vita, molto Pinocchio, tanto che Fellini voleva farne uno come me, anche lui mi chiamava Pinocchietto. E poi mi ha detto “lo farai tu”. Avrebbe amato da morire questa versione dai colori felliniani». Ride: «A Testaccio, il quartiere romano dove vivo, mi dicono “ora ti manca solo la Fata Turchina”. Se Garrone vuole, sono pronto a fare la balena».