la Repubblica, 13 dicembre 2019
La prima volta che Banville vide Fellini al cinema
Verso la fine degli anni ’50, io e mia cugina Mary cominciammo ad andare al cinema insieme. Io avevo intorno ai 14 anni, e Mary due o tre anni più di me. Sicuramente eravamo un po’ innamorati l’uno dell’altra, senza saperlo. I nostri appuntamenti cinematografici erano i momenti salienti della nostra “storia”, anche se abbiamo pure intrattenuto per anni una vivace corrispondenza, quando Mary frequentava un collegio. Nella maggior parte delle nostre lettere, parlavamo di cinema.Non avevamo nessun interesse per i film che andavano per la maggiore a quell’epoca, western, drammoni d’azione e commedie romantiche, con attori come Doris Day e Rock Hudson. No, a noi piaceva esclusivamente il cinema straniero: credo che non abbiamo mai visto un film in lingua inglese in tutti gli anni in cui siamo andati al cinema. Se non era sottotitolato, non ci interessava. A quei tempi c’era un solo cinema, a Dublino, che proiettava film stranieri. Si chiamava The Astor e si trovava (cosa che generava una certa confusione) ad Aston Quay, nel centro. Io ero uno studentello e vivevo a Wexford, nel Sudest dell’Irlanda. Wexford era grande più o meno come Rimini e, quando vidi per la prima volta Amarcord, mi sembrò di ripercorrere gli anni della mia infanzia. La differenza era che la Rimini del film di Fellini era in Technicolor, mentre Wexford, per i miei occhi insoddisfatti di adolescente, era perennemente in bianco e nero.Il mio amore per i film stranieri probabilmente risale a un adattamento radiofonico del Settimo sigillo di Ingmar Bergman, trasmesso sul terzo canale della Bbc negli anni ’50. Lo facevano a tarda sera e io lo ascoltavo di nascosto, a letto, con la testa sotto le coperte, un orecchio premuto sulla radio a transistor e l’altro in allerta per individuare i passi di adulti in avvicinamento, che non avrebbero approvato. Il terzo canale era trasmesso in onde medie e la ricezione era pessima, quindi ero riuscito a farmi solo un’idea molto nebulosa della trama, ma nonostante questo mi ci ero appassionato.Il primo film che io e mia cugina vedemmo all’Astor era L’avventura di Antonioni. Naturalmente non avevamo capito granché. Dopo aver attraversato O’Connell Street per andare nella gelateria Palm Grove, passammo un’ora intensa di fronte a una banana split in due a discutere con solennità su quale accidenti fosse il significato del film. Qual era la ragione della sparizione di Anna, e perché nessuno sembrava preoccuparsene tranne Claudia? Non avevo risposte per queste domande o per le tante altre che aveva fatto sorgere la pellicola: sapevo soltanto che desideravo essere un adulto, elegantemente infelice tra le braccia di Monica Vitti.Un’altra cosa che ci sconcertava era che molte parti del film erano state tagliate dal comitato per la censura cinematografica. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Eppure, in qualche strano modo, eravamo riusciti a comprendere la parabola enigmatica di Antonioni, anche se non coincideva minimamente con la nostra esperienza di vita. In quegli anni la Guerra fredda era estremamente calda e il senso di disagio e disperazione che pervadeva il film ci era del tutto familiare, rannicchiati com’eravamo sotto la minaccia permanente di una cancellazione istantanea. Poi vedemmo La strada di Fellini. Era stato girato alcuni anni prima e ci aveva messo un po’ per raggiungere l’Irlanda e il cinema Astor. Io e Mary ne rimanemmo affascinati, ma lo trovammo ancora più enigmatico dell’ Avventura. Nel film di Antonioni si faceva fatica a interpretare quello che succedeva, ma l’atmosfera ci risultava molto familiare. Il capolavoro di Fellini, invece, esulava da tutte le categorie cinematografiche che avevamo imparato a conoscere.Era una storia triste, più triste di qualunque film di Antonioni, Bergman o Resnais, eppure non aveva nulla di quell’angoscia esistenziale che per noi costituiva il tratto distintivo del cinema moderno. Ricordava più qualcosa dei tempi del cinema muto e la storia di Gelsomina, una sorta di bambina abbandonata, di Zampanò, il forzuto del circo, e del Matto, dalla sorte segnata (gli ultimi due personaggi interpretati, sorprendentemente, da attori americani che conoscevamo per averli visti nei film di Hollywood), aveva un’atmosfera di antichità e poteva tranquillamente essere basata su una vecchia ballata, o su una tragedia greca. Era anche profondamente commovente, un’opera d’arte umanista e umana raccontata con semplicità e in termini emotivi. Al confronto, il cinema di Antonioni e della nouvelle vague sembrava qualcosa di alieno, arido, ripiegato su se stesso. Dopo, nel Palm Grove, io e Mary ammettemmo il nostro disorientamento (perché nessuno era scomparso misteriosamente, dov’erano quei personaggi belli e disperati, dov’era quell’onnipresente angoscia?), ma ci rendevamo conto di aver visto qualcosa che era al tempo stesso tradizionale e interamente nuovo, nella storia del cinema.Fellini ebbe grandi difficoltà a realizzare La strada, senza dubbio perché era un’opera molto vicina al suo cuore (l’ha descritta come «un catalogo completo di tutto il mio mondo mitologico, una rappresentazione pericolosa della mia identità») e perché è stato il film che ha fissato i suoi metodi artistici, un’espressione del suo io spirituale più profondo. Anni dopo, il fatto di scoprire che Fellini era un seguace di Jung mi ha fatto guardare con occhi nuovi la sua opera. Per lui, il sogno è altrettanto reale della realtà e l’illusorio determina le nostre azioni tanto quanto la razionalità (sempre che esista).La filosofia di vita (o almeno della sua vita) trova la sua espressione più ampia, ma al tempo stesso più accurata, in 8 ½ , che è una sorta di distillato di tutta l’opera di Fellini. L’unica cosa che manca in questo glorioso compendio del regista riminese è la presenza di sua moglie, Giulietta Masina, l’ammaliante folletto che ha gettato la sua magia su molti dei film di Fellini, da La strada del 1954 a Ginger e Fred del 1986. Io e Mary vedemmo 8 ½ verso la fine dei nostri anni di visioni cinematografiche comuni. Di lì a poco, Mary sarebbe stata assunta in banca, si sarebbe fidanzata e poi sposata, mentre io… beh, immagino che trovai altre ragazze con cui andare al cinema. E sono quasi sicuro che non andammo al Palm Grove per la nostra analisi post-proiezione, ma in un pub. E quella volta non discutemmo del film, ci limitammo a elogiarlo. Ormai avevamo visto abbastanza, del cinema mondiale, per capire che 8 ½ era il capolavoro di Fellini e una grande opera d’arte contemporanea.E fu, per il giovane scrittore che stavo diventando, una rivelazione e al tempo stesso un’ispirazione. Il film, e in particolare la meravigliosa scena finale del ballo in cerchio, mi ha dimostrato che le difficoltà apparentemente insolubili di un artista possono diventare esse stesse materia artistica. Una delle cose più incredibili di 8 ½ è che il più eloquente e inventivo dei cineasti sia riuscito a produrre quella che probabilmente è la sua creazione più grande partendo dall’equivalente cinematografico del blocco dello scrittore. Fu un insegnamento e un conforto, e lo resta ancora oggi.Sono molti anni che non vedo mia cugina Mary, ma recentemente mi ha contattato e ha proposto di vederci per un pranzo. Forse dovrei portarmi dietro il mio computer portatile, e dopo aver sparecchiato la tavola potremmo riguardarci La strada, o 8 ½ , o La dolce vita, e immaginarci di nuovo seduti nel buio del cinema Astor, rapiti dalla bellezza, dal calore e dall’allegria dell’opera di uno dei più grandi artisti della nostra epoca