la Repubblica, 13 dicembre 2019
La dura vita del castoro
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Alle cinque della sera del 28 settembre 1786, Wolfgang Goethe sbarca a Venezia. Nei Ricordi di viaggio in Italia
commenta entusiasta l’arrivo «in questa città meravigliosa, formata tutta d’isole (...) questa repubblica di castori!». Celebrava così l’analogia tra la tecnica di edificazione della città e le note capacità ingegneristiche del roditore. Relazione tra acqua, legno e talento innato nella creazione d’infrastrutture complesse che oggi, dopo le maree che hanno devastato la laguna di Venezia e i tanti fiumi e torrenti italiani esondati, ritorna di grande attualità. È stato crudele il destino del castoro. La colonizzazione europea dell’America si è compiuta a spese della pelliccia di milioni di castor canadensis : a metà dell’Ottocento erano scomparsi; stessa sorte per il Canada «costruito sui castori morti», come ha scritto Margaret Atwood. L’amico europeo, il castor fiber, era già stato annientato alla fine del Medioevo. Trent’anni fa, tra Europa e Asia, non c’erano più di mille castori. Poi dalle due parti dell’Atlantico è cominciato il ripopolamento; a ovest, dal Minnesota fino al Mississippi, e in Europa: Norvegia e Germania in testa. Se ambientalisti, scienziati e istituzioni non profit si affrettano oggi a dar battaglia per la reintroduzione di famiglie di castori nei corsi d’acqua di tanti Paesi, con poche eccezioni tra cui l’Italia, non è per paura che si estinguano. Siamo noi ad aver bisogno di loro. Perché è stato riconosciuto l’aiuto che, con le loro dighe, possono offrire nel mitigare inondazioni e nel migliorare la qualità dell’acqua; con le loro tane di fango, legno, pietre e foglie, i castori ricreano un habitat ideale per specie in estinzione. Sono i conservazionisti naturali del pianeta. Hanno la nostra stessa predisposizione ad alterare idrologia e geologia. E, pensando all’Italia, è facile immaginare l’utilità di animali il cui bisogno primario – costruire dighe naturali – abbia come effetto di rendere stabile la portata dei fiumi, evitando periodi di secca oppure inondazioni rovinose. Dopo cinque secoli di assenza, un anno fa nel tarvisiano, il gruppo ambientalista Progetto Lince Italia ne ha fotografato uno. Si chiama Ponta, è un maschio, arrivato lì dall’Austria. Ha costruito tre dighe, ma è l’unico castoro avvistato in Italia. È strano come di uno degli animali più presenti nel nostro immaginario, si sappia poco. Molti lo ritengono un carnivoro o una specie infestante. Pochi immaginano che il suo antenato, il Palaeocastor, fosse già in giro con i suoi micidiali incisivi trenta milioni di anni fa. La sua storia è raccontata in un saggio del giornalista Ben Goldfarb, uno dei tanti “Beaver Believer”, gente con una fede totale nel roditore. A Goldfarb abbiamo chiesto di parlarci di questo imminente giorno del castoro.
Che cosa può fare per noi?
«Il suo ruolo è monitorare e rallentare la circolazione dell’acqua, grazie alla creazione di pozze e bacini. L’acqua fuoriesce creando aree umide e marcite. Nell’ovest americano, con estati molto secche e incendi frequenti, i castori, con i loro sbarramenti, fanno sì che l’acqua si conservi per la stagione calda. D’altra parte, rallentando la velocità di discesa dell’acqua riescono a evitare le inondazioni create da torrenti che precipitano a valle. L’acqua resta intrappolata nelle dighe, che fungono da filtro, depurandola da fosfati e altri fertilizzanti. Una coppia di castori è capace di catturare una quantità inimmaginabile di fosforo».
Il castoro è anche utile per rivitalizzare l’ecosistema?
«Sì, perché è una specie chiave per l’ambiente. La sua scomparsa ha determinato la quasi estinzione del salmone nei fiumi americani ed europei. Se sei un piccolo salmone, non vuoi nuotare in un grande fiume, hai bisogno di quei canali laterali, di paludi create dal castoro.
E nella sua tana dà ospitalità ad altre specie animali che non hanno nulla a che vedere con lui, come i topi muschiati. In questa generosità c’è una lezione per noi».
Il fatto di non essere a rischio d’estinzione, rende più difficile la vostra missione?
«Certo. È dura far passare il messaggio, quando diciamo che, soltanto negli Stati Uniti, ne esistono 15 milioni. Prima dell’arrivo degli europei, erano però centinaia di milioni. Quando, dopo quasi mille anni di assenza, è stato reintrodotto in Gran Bretagna, chi lo vedeva credeva di trovarsi davanti il mostro di Lochness».
L’Italia è un paese adatto a ospitarli?
«Ne avete bisogno. Prima occorre però far crescere il livello di accettazione sociale e studiare la convivenza con gli agricoltori. Sono loro i principali avversari della reintroduzione dei castori».
Perché?
«In California, dove la siccità è un problema, i contadini hanno paura che rubino l’acqua. In Baviera Gerhard Schwab ha istruito dei volontari perché risolvano i problemi. È nata una sorta di “Beavers Hotline”. Chiami, racconti il guaio, arriva il volontario. I castori sono dei geni pratici e, come noi, combinano pasticci; ma il loro cervello è una nocciolina, dovremmo riuscire a batterli».
Che cosa accomuna voi Beavers Believers?
«L’umiltà. Sappiamo che siamo stati noi a incasinare il mondo e che l’unico modo per risolvere i guai è spegnere i bulldozer e lasciare che sia un’altra specie a prendere il controllo».
Sono Mister Beaver, risolvo problemi.