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 2019  dicembre 13 Venerdì calendario

Nicola Porro ricorda Fellini

Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l’artista di 8½, film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l’Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l’uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi.
Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recherche arriva all’ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un’intervista laggiù nel ‘72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film.
Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d’altro. Parlava come nessuno, l’accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell’impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza».
Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show, nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero.
Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all’uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all’opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore, spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall’altra parte della barricata.Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall’ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell’immagine televisiva alla crisi dell’intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c’era la richiesta gentile di fare un po’ di silenzio. È l’ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato.
Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va, le moto selvagge in corsa alla fine di Roma, l’amore con la ballerina meccanica robot in Casanova, nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita, dove c’era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.