la Repubblica, 12 dicembre 2019
Più di duemila librerie chiuse in cinque anni
Si fatica a credere che la chiusura di una libreria sia un problema di democrazia. Invece è esattamente ciò che si porta dietro, insieme all’ecatombe delle edicole, la strage delle librerie: lascia intere comunità prive della possibilità di documen-tarsi, studiare, arricchire la propria cultura. E questo non può che impattare anche sul funzionamento stesso della democrazia. Forse meno evidente nei numeri rispetto al caso delle edicole, è però impressionante per la velocità con cui anche la desertificazione delle librerie avanza.
Fra il 2012 e il 2017, considerando pure le cartolibrerie diffuse soprattutto nei piccoli centri e nelle periferie, sono scomparsi 2.332 punti vendita di libri. Con la conseguenza di far volatilizzare 4.596 posti di lavoro, oltre al 13,5 per cento delle imprese. Il risultato è che in un Paese nel quale già il 60 per cento della popolazione non tocca un volume, esattamente come 17 anni fa, ci sono 13 milioni di persone che pur volendolo fare non possono: perché non hanno una libreria raggiungibile senza dover affrontare un viaggio della speranza. Parliamo di quasi il 22 per cento degli italiani, ed è semplicemente inaccettabile.
Sono anni che l’associazione dei librai presieduta da Paolo Ambrosini insiste su alcune richieste, come quella di alleggerire il peso fiscale introducendo detrazioni simili a quelle per le spese mediche o l’attività sportiva dei figli. Pienamente comprensibile: perché la palestra sì e un buon libro no? Magari, dice Ambrosini, si potrebbe partire dal libri scolastici. Anche perché è stato calcolato che l’Erario dovrebbe rinunciare al massimo a una cifra di 160 milioni l’anno. Per fare un paragone, è meno dei sussidi pubblici con cui ogni anno gonfiamo i profitti delle compagnie aeree straniere low cost.
E se il sistema delle librerie deve vedersela anche con il commercio online, avversario fino a qualche anno fa imprevedibile rappresentato soprattutto da un colosso come Amazon che in Italia non paga certo le tasse normalmente pagate dalle nostre imprese e ora porta l’offensiva anche sul campo della distribuzione, i librai più piccoli hanno un problema in più. Quale, è presto detto. Si tratta degli sconti del 15 per cento che le grandi catene praticano ormai di regola ancor prima dell’uscita del libro, imponendo di fatto alle librerie indipendenti condizioni di vendita in molti casi insostenibili perché dimezza i loro margini.
Una politica portata avanti e sostenuta con forza dai maggiori editori che sono anche distributori e proprietari di catene, in testa a tutti il gruppo Mondadori. Senza però considerare che trattare il libro come un qualunque altro bene di consumo, ritenendo che la concorrenza si debba fare solo sul prezzo, rischia di rivelarsi controproducente anche per loro. Esattamente come nel caso delle edicole, per ogni punto vendita che chiude le copie perdute non si recuperano più.
L’ostinazione con cui viene difesa la prerogativa di scontare i libri già dal primo giorno sembrava ora finalmente piegata. Anche se con il solito compromesso. A metà luglio è passata alla Camera una legge che limita gli sconti a un massimo del 5 per cento del prezzo di copertina, introducendo qualche piccolo beneficio fiscale e istituendo anche un modesto fondo per il sostegno alla lettura. Molto meno di quello che sarebbe necessario per fare un vero salto rispetto alla situazione di 17 anni fa e magari restituire anche un po’ di ossigeno a un settore economico letteralmente stremato. Ma piuttosto che niente, dice un vecchio proverbio, meglio piuttosto. Il fatto però è che questo accadeva ormai cinque mesi fa. E da allora la legge è ferma nei cassetti del Senato per ragioni sconosciute. Approvata alla Camera il 16 luglio, ci sono voluti tre mesi perché se ne occupasse la commissione Cultura del Senato. Commissione presieduta dal leghista Mario Pittoni, già responsabile istruzione del Carroccio che un anno fa, interpellato dall’Espresso, ha confermato di avere in tasca un diploma di terza media dichiarando al settimanale: «Sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Quello che c’è da sapere non si impara sui polverosi libri».
Da allora, tre riunioni e la richiesta di una selva di pareri a otto commissioni otto. Dagli Affari costituzionali alla commissione Igiene e sanità (l’impatto sanitario della cultura è oggettivamente decisivo), tutti hanno dovuto dire la loro a proposito degli sconti sui libri. I bene informati dicono che i ritardi sono giustificati dall’attesa di una relazione della Ragioneria generale dello Stato che quantifichi l’impatto di quelle briciole concesse ai libri sui conti pubblici e, considerato che la Ragioneria è purtroppo assai impegnata con la legge di bilancio, bisogna portare pazienza. Anche se quella relazione, peraltro, non sarebbe altro che la sorella gemella di quella già prodotta alla Camera. Ma sarà davvero questa la ragione?