La Stampa, 12 dicembre 2019
Per Aung San Suu Kyi non ci fu «nessun genocidio dei Rohingya»
Aung San Suu Kyi è entrata nell’aula della Corte Internazionale di Giustizia ieri mattina fasciata nella tradizionale gonna birmana «longy», con la tensione del volto temperata da margherite rosa nei capelli. Ma ha scelto di indossare una giacca nera per respingere le accuse di genocidio rivolte al Myanmar all’Aja.
Fra i pannelli di legno e gli affreschi della più alta istituzione giudiziaria delle Nazioni Unite, la leader birmana già premio Nobel per la Pace, ha parlato per 25 minuti riconoscendo le sofferenze della minoranza musulmana Rohingya, ma negando che vi sia stato da parte del suo Paese alcun «intento genocida» volto a «distruggerli».
«Non possiamo escludere che alcuni militari abbiano applicato un uso sproporzionato della forza, in alcuni casi nel disprezzo del diritto umanitario internazionale», ha detto Aung San Suu Kyi, ammettendo per la prima volta che un numero imprecisato di civili possano essere morti a seguito a «spari dagli elicotteri militari» durante le «operazioni di controterrorismo» nello Stato occidentale del Rakhine.
Le accuse di genocidio, secondo il premio Nobel per la Pace, si fondano però su «un quadro incompleto e fuorviante», e la responsabilità degli eventi sarebbe da attribuire non al Myanmar, ma agli attacchi della Arakan Rohingya Salvation Army, il gruppo di insorti che ha attaccato con mezzi rudimentali esclusivamente postazioni di polizia birmane, uccidendo una dozzina di militari nell’Agosto 2017.
È in questo periodo che l’aura della Lady si è spenta, pur non rimanendo sempre in silenzio, ma mai ammettendo la proporzione degli eventi raccontati dai Rohingya in fuga con ogni mezzo – a piedi nella giungla, in barca attraverso il fiume Naf, con feriti e anziani trasportati su sedie attaccate a canne di bambù.
Sono le testimonianze riferite nel rapporto della Missione Indipendente delle Nazioni Unite e risuonate martedì nelle argomentazioni del Gambia, Stato africano a maggioranza musulmana con meno abitanti di Roma, che, con il supporto della Organizzazione di Cooperazione Islamica, ha impugnato la convenzione sul genocidio del 1948, di cui entrambi gli Stati sono firmatari.
Per gli osservatori internazionali la decisione di venire a L’Aja è l’ultimo passo nella rivoluzione copernicana della biografia della Lady, come Aung San Suu Kyi viene chiamata. Ma ad un anno dalle elezioni, la popolarissima decisione è stata celebrata da manifestazioni in tutto il Paese, e a difenderla ci pensano anche i supporter birmani accorsi dal Myanmar o anche dall’Italia: «Siamo qui per darle forza», dice Myo, una birmana che vive a Roma con il marito e il figlio, mostrando sorridente l’adesivo con l’immagine di Aung San Suu Kyi sulla guancia fuori dal Palazzo della Corte di Giustizia.
Nello stesso spazio, il giorno prima, gli attivisti della diaspora Rohingya arrivati da Londra, dall’Olanda, dal Canada, calpestavano invece la sua immagine al suono di «Vogliamo giustizia, Vogliamo giustizia», ma senza nascondere la preoccupazione che la parabola discendente di Aung San Suu Kyi risucchi l’intera narrativa, mettendo in secondo piano le vittime e il ruolo dei militari, protagonisti diretti della repressione.
La voce più importante rimane però quella che arriva dai campi in Bangladesh: «Aspettavamo l’accusa di genocidio da molto tempo», è il messaggio su Whatsapp che il 21enne Mohammad Rejwan scrive a «La Stampa» da Kutupalong, divenuto il campo rifugiati più grande del mondo. I Rohingya a L’Aja ringraziano il Bangladesh, ma i rifugiati rinchiusi nei campi sono sempre più preoccupati per il peggioramento delle condizioni al loro interno, inclusa l’interruzione di Internet che mantiene il contatto con l’esterno e che è stata temporaneamente ripristinata proprio per consentire ai Rohingya di seguire le udienze dell’Aja.
Il Rohingya Aung Kyaw Moe parla invece dalla ex capitale del Myanmar, Yangon, dove gestisce il Centre for Social Integrity per la promozione del dialogo di pace in Rakhine. «Il processo è importante, perché accertare le responsabilità è l’unico modo per risolvere la crisi», dice Aung Kyaw Moe. —