Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 22 Venerdì calendario

Intervista a Matteo Garrone sul suo "Pinocchio"

ROMA. Geppetto: "Pinocchio dì qualcosa". Il burattino: "Babbooo". Geppetto: "M’è nato un figlio!". Roberto Benigni, invecchiato e barba bianca, è una maschera pazzesca, impressionante, inedita. Lo stupore sul volto del bambino Federico Ielapi, un pozzo di candore, sorpresa e innocenza. Il film è in fase di montaggio, ma poche scene sono sufficientemente forti per catturare, entusiasmare, rapire, e far gridare: dritto all’Oscar, per favore (intanto nel cast ce ne sono già tre di artisti decorati dall’Academy: oltre a Benigni, Dario Marianelli per le musiche e Mark Coulier per il trucco).

Matteo Garrone, regista e produttore, sta dando le ultime carezze all’adorata creatura, il Pinocchio che esce al cinema il 19 dicembre. Il suo quartier generale negli Studios di Roma, tre stanze affollate da fidatissimi collaboratori travolti dalla frenesia della scadenza imminente, è diventato il teatro dei burattini. Vi si accede da una scaletta ripida che conduce a un ballatoio con pergolato illuminato dal neon di Dogman, proprio l’insegna usata nel suo film precedente sopra la serranda del lavacani. Quel colore verdastro, sotto la pioggia battente, fa molto Roma, periferia, abbandono, precarietà. Tutto squisitamente Garrone. Ma il decimo film del regista e produttore cinquantunenne, fedelmente tratto dal romanzo Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi (1883), con L’imbalsamatore e Gomorra (almeno apparentemente) non c’entra niente.

Pinocchio, come la data d’uscita lascia intuire, è un film per le famiglie, più imparentato con la straripante inventiva secentesca di Giambattista Basile (Il racconto dei racconti, dal quale Garrone ha tratto il suo primo fantasy nel 2015) che con la spietata realtà contemporanea sputata in faccia al mondo da Saviano. "Eppure, quanto Pinocchio c’è nella mia produzione" esclama Garrone, la faccia segnata da troppe notti insonni (il lettone sistemato in un angolo fa pensare a turni massacranti). "Pinocchio è sempre stato con me" aggiunge riguardando le tavole a colori realizzate quando aveva otto anni, l’età di Federico: un piccolo, coloratissimo, storyboard in cui con calligrafia infantile scrive Gieppetto e in maiuscolo si firma col suo nome al contrario, OETTAM.  "Come vede all’epoca facevo dei gran lietofine, mi sono rovinato crescendo" scherza, indicando un quadretto in cui il protagonista saltella verso una casina dal tetto rosso e un sole gigante. "Incredibile, sembra il finale del Pinocchio cinematografico" mormora.

Scorrono altre immagini, appaiono Mangiafoco (Gigi Proietti), poi il Gatto e la Volpe (Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini): primi piani mozzafiato e fantastiche carrellate su paesaggi incantati e minacciosi. Tutto conferma quel che è già evidente nel trailer diffuso qualche settimana fa: è un Pinocchio d’autore, e il segno di Garrone è fortissimo - l’infantile curiosità del Fellini a colori e la matura consapevolezza del giovane Pasolini in bianco e nero. "È un progetto che ha richiesto un lungo lavoro di montaggio, quasi cinque mesi dopo quattro di lavorazione, certamente il film più difficile che ho fatto" spiega il regista.

Dalla saletta di doppiaggio si odono scoppi di risate allegre. Di un bambino, chiaramente. Pinocchio, ovvio. "In realtà le ho registrate ieri sera a casa, mentre facevo il solletico a mio figlio Nicola, che ha undici anni, ho idea di inserirle in una scena. È Nicola il vero Pinocchio, la mia fonte d’ispirazione quotidiana. Proprio perché è Pinocchio non avrebbe potuto interpretare il burattino; a un certo punto ci avevo anche pensato di farglielo fare tanto sarebbe stato perfetto. Nicola in realtà c’è: fa una particina nel Paese dei balocchi, in mezzo ad altri cento bambini".

Quando è entrato Pinocchio nella sua immaginazione?
"Quarantacinque anni fa, se partiamo da questi disegni. Da quel momento è sempre rimasto con me. Tracce di Pinocchio, magari anche inconsapevolmente, ci sono in tutti i miei film".

L’idea del film si è concretizzata dopo Il racconto dei racconti?
"Esatto. Con Il racconto ho iniziato il mio viaggio nel soprannaturale, storie dove il reale si mescola al fantastico. Basile mi ha incantato, e da lì ho iniziato un viaggio. Alla fine di quel film mi resi conto che c’erano ancora dei margini di esplorazione in un territorio che avevo iniziato a conoscere. A quel punto mi sono messo alla ricerca di un altro racconto, e ho riletto Pinocchio. È stata l’occasione per un viaggio nell’Italia contadina di fine Ottocento, attraverso le foto di Alinari, la pittura, i macchiaioli, i grandi illustratori, come Enrico Mazzanti, il più antico, la mia guida. Una ricerca appassionante che è durata quattro anni, con una lunga pausa per la realizzazione di Dogman".

Ha trovato molti elementi di novità rispetto al già ricco e inesauribile immaginario di Basile?
"È stata piuttosto l’occasione per esplorare l’universo della comicità. È vero che in Pinocchio ci sono anche momenti oscuri, allucinatori e inquietanti, ma fondamentalmente è una storia scritta per intrattenere i bambini, quindi divertente. Ho pensato che per essere fedele a Collodi fosse necessario trovare il modo di far ridere e sorridere, di fare un film che arrivi a tutti. Intrattenimento puro, dove tra comico e drammatico non c’è confine".

Guardando alcune scene montate si capisce quanto determinante sia stato Il racconto per arrivare a Pinocchio.
"È stato fondamentale perché lì per la prima volta mi confrontavo con una dimensione totalmente fantastica - orchi, maghi, fate, lumache, grilli e pulci - sia dal punto di vista espressivo che dal punto di vista tecnico. Anche in quel caso, Pinocchio stava dietro l’angolo, come in tutti gli altri miei film. Pensi all’apparizione del grillo in Reality, un’invenzione che inconsciamente arrivava da Collodi. Oppure quando Marcello, nel finale di Dogman, diventa invisibile ai compagni di calcio - pensavo alla disperazione di Pinocchio che non viene più riconosciuto. La sfida che ho affrontato questa volta è riuscire a sorprendere anche chi pensa di conoscere Pinocchio a menadito: trovare la chiave per raccontare una storia che fa parte dell’immaginario collettivo in maniera inedita".

E come pensa di esserci riuscito?
"Paradossalmente rimanendo fedele al racconto. Non so perché, ma chi si è avvicinato a Pinocchio si è sempre sentito in diritto di reinventare e attualizzare; ogni epoca, dal periodo fascista in poi, ha cercato di farlo suo. Così succede che rileggendo l’originale quasi tutto è inedito. Molti spettatori vedendo il film esclameranno: ma guarda quante cose s’è inventato Garrone! In realtà è tutto nel testo, che troppo spesso è stato trascurato".

Leggi anche PINOCCHIO È L’ALLEGORIA DI NOI ITALIANI

Il cinema ci ha abituati a una sola Fata Turchina, qui ne abbiamo due...
"...Come nel testo appunto. La prima è una bimba, una specie di fantasma, accoglie Pinocchio come una sorellina; poi nella seconda parte del racconto diventa una sorta di mamma. Per la prima ho voluto Alida Baldari Calabria, che era nel cast di Dogman, e per la seconda Marine Vacth, l’unica non italiana nel cast, perché volevo una bellezza eterea e al contempo spettrale. Fare un film per bambini è una grande responsabilità. Devi essere onesto, sincero, puro, chiaro, diretto, semplice; il bambino deve vedere una scena, ridere o piangere senza che ci siano situazioni ambigue. È stata un’esperienza formativa, un esercizio. Ben consapevole che un nuovo Pinocchio crea aspettative pazzesche - sapevo di cacciarmi in un guaio".

Immagino che quando avrà riunito il cast e le maestranze qualcuno si aspettasse da Garrone un Pinocchio in salsa Gomorra, una rilettura dark di Collodi.
"Come avrei potuto? Pinocchio nasce come storia per bambini e a nessuno, spero, sia venuto in mente che volessi dissacrare Collodi. Al massimo avranno avuto qualche dubbio sul mio rapporto con la comicità. Lì ho avuto la fortuna di essere in compagnia di grandi attori che, a partire da Benigni, sono veterani del genere; mi hanno aiutato a capire, a non fare errori, a cercare soluzioni. E parlo di Proietti, Papaleo, ma anche di Massimo Ceccherini che, pur se molto amato dal grande pubblico, ha un potenziale inespresso; è sorprendente, uno dei più grandi attori con i quali abbia lavorato. Con Benigni c’è stato un rapporto fantastico, una grandissima sintonia, mi ha aiutato ad andare nella giusta direzione".

Come ha reagito Benigni alla chiamata? Poteva essere destabilizzante per un attore che fu Pinocchio nel 2002 ritrovarsi Geppetto nel 2019.
"Non sono andato da lui a mani vuote, mi sono presentato con un’immagine, una foto di Roberto invecchiato, come fosse il fratello maggiore che non aveva mai lasciato Manciano La Misericordia, rimasto legato alla realtà contadina. Avevo in mente un Geppetto che non avesse mai varcato le soglie del borgo; dunque un Benigni segnato, invecchiato. È rimasto traumatizzato da quell’immagine, anche perché non gli era mai capitato di cambiare il suo aspetto in maniera così drammatica. "È mio nonno!", ha esclamato. Credo che a un certo punto, con una buona dose d’incoscienza, abbia deciso di fidarsi di me, del progetto. Ha capito che anche lui, come tutti, doveva mettersi in gioco, prendersi dei rischi, lavorare su un’immagine nuova, invecchiarsi per dare credibilità a Geppetto. Per lui deve essere stato un ritorno alle origini, un viaggio indietro nel tempo".

Nessuna riserva dunque?
"Era perplesso, all’inizio, sulla scelta di quel Geppetto con la barba. Mi spiegava che un comico non usa mai la barba; la barba crea mistero, né Chaplin né Keaton si sono mai mostrati al cinema con la barba. Gli ho spiegato le mie motivazioni: "Devi perderti dentro quel mondo che un po’ ti appartiene", gli ho detto. Da lì abbiamo costruito il personaggio".

Sono tutti attori collaudati, con una fisicità perfetta per i rispettivi ruoli. La vera sorpresa è Federico Ielapi (già in Quo vado? di Zalone), otto anni, un Pinocchio che non dimenticheremo, anche per le sue capacità di attore consumato, come ne vedi solo in certi film americani.
"Federico è un bimbo bionico, l’ho scelto anche per la sua resistenza fisica fuori dal comune. Si è sottoposto senza mai un lamento a quattro ore di trucco quotidiano, sopportando un prostetico per tre mesi, recitando nel mese di giugno a temperature elevate. La voce è la sua e, come Benigni, poiché è bilingue, doppierà anche la versione inglese. È un ragazzino spavaldo, non aveva nessun timore nelle scene più spericolate, eravamo noi, casomai, a frenare i suoi slanci. Ci ha messo il cuore. Lui Pinocchio l’ha proprio interpretato, se l’è cucito addosso, con grande sacrificio e una disciplina ferrea - una personalità che è esattamente l’opposto di quella di Pinocchio. Vede, mio figlio avrebbe accettato di fare il ruolo di Pinocchio per non andare a scuola, ma poi non sarebbe mai arrivato sul set in orario; Pinocchio dentro, insomma. Federico invece ha un’indole diversa, ha dovuto recitare".

È stato laborioso scovare le giuste location?
"Rileggendo Pinocchio si è spalancato un mondo che altri film sul burattino avevano ignorato o limitato. Quello di Comencini (1972) rimane per me il più bel Pinocchio, forse perché ha accompagnato la mia adolescenza. Il regista fece salti mortali per realizzare il suo progetto senza avere a disposizione gli effetti speciali che abbiamo oggi. Provò a fare un burattino empatico con Rambaldi, ma allora non era così semplice. La ricerca delle location è stata lunga e complessa, perché, ahimè, in Italia, dopo le devastazioni urbanistiche degli anni Sessanta, trovare dei paesaggi ottocenteschi intatti è un’impresa. Abbiamo attraversato il Paese prima di scoprire questo luogo fantastico fuori dal tempo, Tenuta La Fratta, a Sinalunga, nel Senese. Un set ideale. Ovviamente la Toscana di Collodi, quel mondo contadino povero, solidale e laborioso, non è quella di oggi".

Che ricordi ha della sua infanzia, quando illustrava Pinocchio con la passione di un piccolo Mazzanti?
"Ricordi vaghi. Mi piacevano i racconti per immagini, creavo delle storie a fumetti. Questo mi conforta, vuol dire che forse ho fatto cinema per una buona ragione. Sono sempre stato affascinato dal colore" e indica un disegno realizzato a otto anni da mano tutt’altro che infantile in cui, tra facce diaboliche meticolosamente tratteggiate, compare anche un Mangiafoco che campeggia su tre teatrini: "Era il preferito di mio padre" dice.

Anche nei suoi film più inquietanti personaggi abietti e violenti sono caricati con evidenti elementi favolistici, per accentuarne l’umanità o la malvagità, a seconda delle situazioni.
"Pensi a Gomorra, per me era un film fiabesco: l’infanzia violata; l’aspetto illusorio di quella giungla in cui vivono senza più distinguere il bene dal male; un mondo parallelo. Penso ai due protagonisti, Marco e Ciro: Ciro, così magrolino, è un Pinocchietto (indica il manifesto di Gomorra che giganteggia sulla parete, con i due protagonisti in slip, mitra spianato in mano, ndr). Comunque vada, sono felice di aver fatto questo viaggio. Per amore di Collodi ho accettato tutte le difficoltà legate al set e alla postproduzione con una rassegnazione masochistica. Per la prima volta un mio film esce a Natale - forse la prima e l’ultima. E per la prima volta propongo un lieto fine. Che sollievo!".