il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2019
Intervista a Juliette Binoche
Juliette Binoche, ne Le verità di Hirokazu Kore-eda, a Natale nelle sale francesi, è la figlia di Catherine Deneuve: com’è andata?
Io le davo del tu, lei mi dava del lei, tranne che per esigenze di copione. Finito il film, è tornata al lei.
Una relazione a senso unico?
Sul set, Catherine fumava tantissimo, un giorno le ho chiesto una sigaretta, senza risultato. L’ho implorata: “Te la ridò”, lei nulla: “Non si prestano le sigarette”. Non mi sono persa d’animo: “Ti ridò un pacchetto”. Alla fine, me l’ha tirato lei. È stato il primo passo, siamo state bene.
Che cosa c’è dietro il suo lavoro?
La curiosità è la base dell’essere umano. La passione che mi prende di imparare, scoprire grandi artisti.
È ospite d’onore al Festival di Macao (IFFAM): sensazioni?
Ho avuto un fidanzato cinese, è un buon modo di conoscere il mondo (ride). Amo la Cina, ho visitato la campagna e sono rimasta colpita dalle tradizioni, la poesia, il modo di pensare. Shengong, agopuntura, che è la mia medicina in Francia, sono affascinata dalla cultura cinese, è così raffinata.
Ha esordito nel 1985 con Jean-Luc Godard: Je vous salue, Marie.
Ero giovanissima, lavoravo come cassiera, ho fatto il provino, mi hanno preso, un piccolo ruolo. Ho detto al padrone che me ne andavo, che facevo un film con Godard: niente, voleva convincermi a rimanere, “crescerai qui al negozio”.
Invece Godard?
Ho passato tre, quattro mesi in hotel: lui girava quando gli pareva. A un certo punto mi dà un lungo monologo e insieme gli auricolari: “Ripeti quel che ti dico”. Mi oppongo: “Questo non è recitare, è ripetere”. Il giorno dopo torna sui suoi passi: via l’auricolare. Ad aprire il film la mia battuta, “Tout ce que je dis c’est de la merde”: non male come inizio.
Il primo ruolo da protagonista in Rendez-vous di André Téchiné: Nina, che si divide tra tre amanti.
Il freddo, un incubo. E nudità, scene di sesso, ma quell’esperienza mi aiutò a stringere un patto dentro di me, a trovare la fiducia e affrontare i miei limiti. Quando sei giovane e donna, le persone ne approfittano, ma è lì che sono diventata capace di dire no.
Oggi c’è il #MeToo.
Quando leggo copioni in cui le donne sono viste come oggetti del desiderio, ci vado sempre coi piedi di piombo. Il #MeToo è un movimento importante, ma dovrebbe essere anche You Too, He Too, We Too…
Che cosa pensa delle nuove accuse di stupro a Roman Polanski? Condivide il boicottaggio di j’accuse?
Sa che è brutto quel che ha fatto, ed è stato giudicato per quello. La vittima ha detto di voltare pagina. Credo che l’uomo sia capace di trasformarsi e imparare dai propri errori. La vita è movimento: c’è chi rimane bloccato, io preferisco andare avanti.
E le nuove accuse?
Mi sono già espressa: voltare pagina! Per chi è il mestiere del cinema? Per gente forte, che però deve mantenere una vulnerabilità, il cuore aperto. Io sapevo di avere il fuoco dentro, ma ignoravo se sarei riuscita a vivere di cinema.
Oggi può dire di essere arrivata.
No, non puoi dirlo mai: puoi dire di aver dato tutto. La recitazione è una forza che ti attraversa, non ne sei totalmente responsabile.
Lei è passata anche per Kieslowski, Film blu.
Krzysztof era un genio. Io gli buttavo lì un sacco di idee, lui ribatteva: “Grazie, ma sono interessato solo a questo zucchero e questo caffè sulla tavola”.
Nel 1997 l’Oscar per Il paziente inglese le apre le porte di Hollywood.
Al contrario, sono scappata: mi sentivo colpevole del mio successo. Ma c’era un’altra ragione: io non volevo essere un’attrice hollywoodiana, ma globale. In America sarei entrata a far parte del sistema, che mi spaventa: sono sempre stata indipendente.
Tra i grandi con cui ha lavorato ci sono Leos Carax (Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf) e Abbas Kiarostami (Copia conforme).
Sì, ma in mezzo son passati vent’anni e ho fatto due figli… Carax era misterioso, ne ero attratta, nondimeno non volevo mi riducesse all’immagine della bellezza: “Sono una persona, capito?”. Per Gli amanti voleva avessi un’esperienza diretta, e mi sono messa in gioco: ho dormito per strada, non potevo passare la notte in hotel e poi fresca come una rosa presentarmi sul set a interpretare una clochard… E Kiarostami?
Come Kieslowski, racchiudeva un film in una frase. Ma aveva qualche problema a discernere verità e finzione, e non si capacitava che piangessi leggendo il copione: “Sono lacrime false!”.
Haneke l’ha diretta per due volte, lo stesso è accaduto con Claire Denis.
E ogni volta non si è più gli stessi. In High Life, il secondo film con Claire, ho girato le scene di sesso tranquillamente, sebbene fossero folli, perché mi fidavo di lei. Fosse stato il primo, non so se le avrei fatte.
E come va il film con Alain Delon?
È in sospeso, per i suoi problemi di salute. Nel frattempo, ho girato la seconda regia di Emmanuelle Carrère, Le quai de Ouistreham, un’inchiesta sulle terribili condizioni delle donne delle pulizie, e La bonne épouse, sulle scuole nell’Alsazia degli anni Sessanta per formare la moglie ideale, brava a cucinare, a cucire e pure a letto. Tranquilli, faccio saltare tutto per aria!